Tuesday, February 6, 2007

La Magia non Esiste


“Chi mi vuole a quest’ora?” chiese irritato l’uomo massiccio e scuro, sia di capelli che in volto. Teneva il mantello di lana grigia chiuso fino al mento con la mano sinistra, e con la destra teneva aperta una cosa che il servo aveva visto soltanto poche volte, e mai da vicino. Si chiamava libro, era fatto di tanti fogli piatti e rettangolari ricoperti di segni che soltanto il Signore e i suoi figli sapevano decifrare. Sul tavolo, e sulle mensole tutto intorno, un caos di oggetti, cose, recipienti, contenitori, flaconi, sostanze, polveri, liquidi, dei quali invece il servo non aveva mai saputo i nomi.

Come faceva il Signore a stare qui sotto in questo freddo e umido postaccio, che qualsiasi altro Signore avrebbe destinato a cantina o dongione, proprio non riusciva a capirlo. Lui, il servo, passava le serate accanto al grande camino in cucina come un signore, e il Signore qui sotto come un povero cristo. Mah. I Signori erano a volte strana gente, e questo più di tutti.

“Uno sconosciuto, mio Signore. Si è presentato in cucina che c’eravamo noi che cenavamo, e ha chiesto se questo non era la casa di Sir Hew de Gifford, e se noi non eravamo i servi dello stesso. Abbiamo detto di sì, e lui ci ha detto che desiderava vedervi subito.”

“E non ha dato alcun nome, alcuna spiegazione?” chiese di nuovo il Signore.

“Mio Signore, abbiamo chiesto più volte, ma dice che suo nome non lo dirà a nessuno, e la spiegazione la saprete soltanto voi se sarete all’altezza. Gli abbiamo detto che voi siete il Signore qui, non c'è nessuno più in alto di voi da queste parti. E’ vestito povero Signore, ma parla bene, come voi.”

Sir Hew guardò distrattamente la pagina del suo libro, masticando un qualche boccone immaginario.

“E va bene. Che sia ammesso al Salone. Arrivo. Ma non lasciarlo solo. Resti con lui. E dagli della birra. E’ una notte fredda.”

Il servo fece un breve inchino e se ne andò su per la scala ormai verdastra dall’umidità. Non poteva lamentarsi e infatti non lo faceva mai. Il Signore li trattava bene. Li dava tutto ciò che serviva, quando serviva e non faceva domande. Li dava spesso anche qualcosa di più. Non c’era fame nel castello dei Gifford, e c’era meno freddo che in altri castelli, dato che il Signore li dava mano libera nella legnaia e il permesso di spazzare via gli avanzi dalla tavola alta oltre alla cena destinata a loro in cucina.

Ma anche se non fosse stato così, la gente sarebbe stata lì buona buona lo stesso, per il disagio. Non si capiva se era paura, o sospetto, ma si sapeva che era meglio non essere fonte di disturbo per il Signore. Lo sentivano anche quelli di fuori, quelli che lavoravano le terre, gli artigiani del paese vicino dove c’era il mercato una volta al mese. A Haddintoun come a Yester, tutti sapevano ma nessuno parlava. Soltanto ogni tanto, dopo il mercato e una birra di troppo, qualche parole usciva da qualche bocca un po’ troppo lubrificata. Parole come magia, come diavolo, come tenebre, come venduto, come anima… E poi subito dopo parole come “sarebbe meglio per te metterti sulla via per casa amico” e il silenzio.

La gente lo guardava mentre passava a cavallo, da sotto dei loro cappucci, con le facce rivolte verso terra. Con timore, ma anche con qualcosa assomigliante al rispetto dal momento che nessuno aveva amministrato la gleba di Yester così bene prima che gli fu donato dalla vedova del re. Nonostante quelle parole di troppo dette nella locanda. Il benessere c’era, e la messa la domenica c’era, e anche se lui non si presentava, cosa significava? I Signori le loro messe le facevano da soli, nei loro castelli, e allora?

E c’erano anche occhi che lo guardavano con qualcos’altro. I Gifford erano tra i Normanni più conosciuti del reame, una famiglia forte che aveva sempre avuto il meglio di tutto. E anche se era strano che lui fosse così scuro mentre altri erano così biondi, non c’era da sorprendersi se era venuto abbastanza bene come uomo. Forte, alto, né troppo magro né con quella pancetta in più che veniva ai ben nutriti della sua età.

Misterioso dicevano le signore. E certi occhi da signorina lo guardavano sognando quelle braccia forti e i bei abiti della Signora. E certo occhi da giovane sposa lo guardavano chiedendosi se con lui.. insomma.. se anche i Signori prendevano le Signore come vacche nella stalla, come facevano i loro mariti… E certi occhi da signora ormai con figli a corteggiare tra di loro, ma con ancora terreno fertile nel grembo e nello sguardo, si chiedevano se magari, facendosi trovare a fare il bagno nel fiume d’estate…

Ma lui era un mistero. Aveva una bella Signora: pochi capelli bianchi, ancora snella, tutti i suoi denti, figlia del ciambellano del vecchio re morto. Ma avevano fatto soltanto un paio di figli. E pur avendo anche il diritto non aveva degnato neanche una delle donne trovate a fare il bagno nel fiume e nemmeno una delle fanciulle in età da marito delle sue attenzioni. E neanche i ragazzi se era per quello, a differenza di altri Signori. Un rebus, ma un rebus da lasciare irrisolto, meglio non fare domande.

Sir Hew si fermò un momento all’entrata del Salone per osservare il visitatore così sfacciato da chiedere di lui senza presentazione. Lo vide di spalle, piccolo ma robusto e avvolto in un mantello col cappuccio ancora tirato su. Altro non riusciva a capire. Era in piedi davanti al grande camino mentre fissava le fiamme che davano anche quel poco di luce che c’era a quest’ora tarde. Il servo era a distanza rispettosa, anche lui in piedi. Sbadigliava accanto al grande tavolo di quercia dove aveva posato la brocca di birra e una tazza di peltro riservata agli ospiti di un certo rango. Bene.

“Posso sapere chi fa l’onore alla mia casa di una visita così inattesa a quest’ora? Deve aver costato molto fatica arrivare fin qui con il freddo e la pioggia che ci sono lì fuori.”

La figura si voltò con mezzo passo, così da rimanere sagomata di profilo contro il fuoco. Ancora non si vedeva nulla del volto, nascosto da un lembo del cappuccio abbondante. Sir Hew notò soltanto la punta di un stivale antico, ruvido, sporco, ormai ammorbidito al punto di aver assunto la forma di un piede che si sospettava essere deforme, contorto. E le dita di una mano semmai ancora più vecchia. Rugosa da sembrare fatta da un pezzo di pelle troppo grosso per le ossa piccole. Piegata e avvolta. Grigia. Leggermente, ma era sicuramente la luce falsificante del fuoco, verdastra. Unghie lunghe, lunghissime. Sporche. Un essere che emanava un leggero odore di terreno, di bosco, di fogli alla fine dell’autunno, di disfatta pre-invernale. Sicuramente aveva usato il bosco come dormitorio la notte precedente.

“Il mio nome non mi è dato darlo. Ma il vostro lo conosco Sir Hew. Abbiamo un vecchio conoscente in comune. Ho fame e ho freddo e mi dicono bene di voi. Della vostra ospitalità”.

Gli occhi del servo si spalancarono sentendo la voce rauca ma piana dell’ospite, come il trascinare dei tronchi sul pavimento di pietra del cortile, ma a distanza. Era addestrato abbastanza bene da non dare altro segnale della stranezza di ciò che sentiva. Soltanto gli occhi spalancati.

Quelli di Sir Hew si socchiusero nello stesso istante. E anche lui non diede altro segnale.

“Mi lusingano. Mi è dato sapere chi sono il nostro conoscente comune?”

“No.”

Sir Hew si voltò verso il servo. “Ci porta un vassoio con qualcosa da mangiare e un’altra brocca di birra. E poi ci lascia soli.” Il servo gli guardò con un po’ di incertezza. Sir Hew annuì una volta e poi indicò la porta con la testa. Il servo sparì.

“Da dove arrivate così tarde? È in viaggio?” chiese Sir Hew al suo ospite.

“Sono sempre in viaggio per il mio padrone,” gli rispose.

“Si vede che vostro padrone ha dei motivi per fidarsi. Si vede che portate a buon fine i vostri affari,” osservò Sir Hew.

“Questo dipende da voi Signore,” disse l’omino, girandosi verso Sir Hew. Fece cadere il cappuccio, ma tenne stretto il mantello intorno al suo collo, così che si videro soltanto una testa calva se non per qualche lungo indisciplinato capello bianco e un paio di occhi neri, lucidi, vivi, intelligenti, del tutto inattesi in una figura così antica, malridotta, piccola e curva. Fissò Sir Hew.

Sir Hew a sua volta fissò gli occhi.

“Sedetevi, vi prego. Sarete stanco dopo tutto questo viaggiare.”

I due si sedettero al tavolo. Sir Hew nella sua sedia centrale, con la sua schiena rivolta verso il camino. Indicò all’ospite il posto accanto, alla sua destra. Sir Hew prese la tazza di peltro piena di birra che finora l’omino non aveva toccato e gliela mise davanti. Non si parlarono più. L’omino bevve un sorso e annuì soddisfatto.

Arrivarono il vassoio e la nuova brocca. L’omino allungò la mano legnosa e prese un pezzo di pollo, che sparì tra i due lembi del mantello. Poi annuì di nuovo.

“E buono. Come la vostra birra. Chissà se i vostri letti sono altrettanto morbidi come il vostro pollo. Oppure magari sono pieni di paglia vecchia e pulci.”

“C’è un solo modo per saperlo,” disse Sir Hew. “E intanto vi auguro una buona notte di risposo.” Sparì fuori dalla porta. Un minuto dopo arrivò il servo con una torcia e un cesto, e con un inchino rispettoso, che prima non aveva fatto, invitò l’omino a seguirlo. Salirono lentamente la scala stretta mentre curvava su e poi su. Nell’angusto, freddo corridoio due piani più in su, il servo aprì una porta pesante di legno. Si inginocchiò davanti al piccolo camino e con il contenuto del cesto e la torcia, accese il fuoco. Indicò il letto:
“E’ tutto pronto signore, presto il fuoco scalderà la stanza. Buona notte.”
E fissando la torcia alla parete uscì dalla stanza, ubbidiente e mistificato, come spesso era.



Sir Hew si fermò di nuovo all’entrata del Salone, come aveva fatto la sera prima. Non aveva dormito, né ci aveva provato. Dopo aver lasciato suo ospite con il servo era sceso di nuovo nella sua camera sotterranea. Li aveva passato la notte cercando di leggere qualche pagina, ma perlopiù camminando su e giù per la lunghezza della stanza.

Nonostante la sua notte insonne, non ce l’aveva fatta a precedere il suo ospite.. Era di nuovo fermo davanti al camino. Osservava intento e immobile le ceneri e i pochi pezzettini di brace ancora vivi. Dietro Sir Hew il servo si fermò anche lui, il vassoio con il pane d’avena, il formaggio e la tazza di peltro in una mano, la brocca di birra nell’altra.

“Allora? I nostri letti sono morbidi come i nostri polli?” chiese Sir Hew.

L’ospite si girò, e questa volta lasciò cadere del tutto il mantello.

Sir Hew sentì il servo soffocare a stento un urlo, lo sentì fare due passi indietro, ma non sentì cadere il vassoio. Bene.

Sir Hew non si mosse.

I due occhi erano quelli della sera prima, neri, lucidi, penetranti, intelligenti. Anche la mano era quella della sera prima, e gli stivali pure. Il resto… Non c’era nulla del corpo che non fosse in qualche maniera storto. Era piccolo ma tozzo, non era gobbo ma era comunque curvo. La testa enorme sembrava spuntare direttamente dalle spalle senza necessità di un collo. Le braccia erano troppo lunghe e troppo magre per il corpo. Le gambe non sembravano fatte per reggere il peso, e forse per questo erano piegate ad angoli impossibili dall’anca infuori. Gambe da rana, non da uomo. I suoi vestiti erano stracci indistinti, difficile distinguere tra un indumento e un altro. Sembravano ormai fusi insieme al suo corpo. E la sua pelle.. Ora che c’era la prima debole luce di un’inattesa giornata di sole d’inverno, era lo stesso grigio-verdastro. Non era stato un gioco della luce delle fiamme. Ruvido, rugoso, più che pelle sembrava corteccia, più che un uomo sembrava un albero di collina, frenato, inibito e storpiato nella crescita dal vento feroce.

“Vedo che noi due ci conosciamo,” disse Sir Hew.

“Vedete bene Signore,” gli rispose la creatura.

“La colazione,” gli disse Sire Hew indicando la sedia. “Dovrete pur mangiare prima di continuare il vostro viaggio.”

L’essere sorrise.

“Non è necessario. Voi avete già provveduto, come aveva previsto il nostro amico comune. Voi siete stati all’altezza. E in segno di gratitudine mio padrone mi chiede di farvi dono di questo tesoro.”

Da qualche piccola, lurida tasca nascosta dentro le strate di tessuti vari che lo coprivano, tirò fuori una singola, piccola, perfetta, verdissima pera.

“In pieno inverno?” si meravigliò il servo, nonostante gli stavano tremando le gambe.

“In questo frutto sta il frutto di tutto ciò che voi avete donate liberamente a mio padrone. In questo frutto sta il frutto negli anni a venire del suo casato. Se la conserva integra, se la protegge con lo stesso onore con cui avete trattato me, così la sua stirpe e i suoi terreni rimarranno nel tempo: integri e onorati.”

La mise sul tavolo, raccolse il suo mantello, venne verso Sir Hew e il servo, ancora fermi alla porta, e li passò accanto, fermandosi soltanto per un breve inchino davanti al Signore e un piccolo, quasi divertito, sorriso al servo. Sir Hew restituì l’inchino, e quando si alzò una frazione di secondo dopo, tutto ciò che rimase del suo ospite era l’odore del bosco, del muschio, dei fogli, dei funghi.

“Signore, quell’uomo..” cominciò il servo.

“Qui non c’è stato alcun uomo tranne noi due,” disse Sir Hew. “E perché tu mi hai servito bene, ti darò una parola, ma in cambio tu non la pronuncerai mai. Goblin.”

Vide gli occhi del servo spalancarsi di nuovo. Vide la sua bocca muoversi in silenzio attorno alla parola, che non avrebbe mai pronunciato.

“Ora sveglia i miei figli. Portali giù di sotto. E’ ora che sappiano alcune cose.”

E Sir Hew, con la pera in mano, scese di nuovo nella sua camera sotto la terra, ad aspettare i suoi figli.

2 comments:

Sergio said...

Ortografia, grammatica e sintassi alquanto zoppicanti, ma il racconto è ben condotto e interessante. Buona l'atmosfera generale, ben resi i personaggi.
Giudizio positivo

Bhuidhe said...

Sergio: grazie dei commenti molto generosi. Zoppico perché non è la mia lingua, è quello che ho cercato di rendere nella mia "parte" del "Coro" (Jane). :-)