Wednesday, April 15, 2009

Biancaneve

"Insieme nella Diversità" (Concorso Nazionale Auser La Città che Apprende 2008, racconto segnalato)
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“Giochiamo a Bianca Neve?”
“Sì, sì, dai!”
Yemma è la mia migliore amica, Yemma è la bambina che cerco prima delle altre. Stiamo decidendo a cosa giocare. E’ estate, che non vuol dire granché qui in Scozia, ma significa almeno che si può giocare fuori gran parte della giornata, per la gioia delle mamme, quasi tutte a casa a tempo pieno. Sia la mia che quella di Yemma stanno a casa. Mio papà fa il veterinario, quello di Yemma fa il medico nell’ospedale locale. Tutti e due i papà leggono il giornale mentre la mamma pulisce la moquette. La mia mamma ha un aspirapolvere della marca Hoover che assomiglia vagamente a uno squalo martello. La mamma di Yemma ha una strana spazzola rotante che passa su un bastone.
Tutti e due i papà hanno un sesto senso per quanto riguarda l’esatto momento di alzare i piedi , quanto tenerli alzati e quando abbassarli nelle acque ora sicure.
“Allora faccio io Bianca Neve, e tu fai la strega.”
Yemma è forte e decisa. Mi piace. La adoro. Mi sembra me, o almeno me come vorrei essere. Yemma vibra, spruzza colori. Ha una parlata rapida con un accento bellissimo: sembra legno di foresta, forte, spesso e solido.
A cinque anni la mia esperienza di accenti non era vasta, ma avevo sentito parlare una francese e un italiano. I loro accenti erano farfalle, erano fiori nel vento. Leggeri, veloci, parole come coriandoli nell’aria. Mi piacevano molto, ma quello di Yemma ancora di più.
Ci provo con le lusinghe.
“Ma no! Voglio fare io Bianca Neve! Fai tu la strega. Sei bravissima a fare la strega, sei fantastica!”
Yemma è forte e determinata. Io sono testarda. Non so bene nemmeno ora quale sia la differenza, ma già la avvertivo. Criterio? Forse Yemma aveva delle criteria e io soltanto voglia di far fare come dicevo io.
La sorella maggiore di Yemma era una giovane donna di ben 8 anni, Luba. Luba non era testarda, e apparentemente non era nemmeno forte e determinata. Ma stranamente la dolcissima Luba, la mia eroina e oggetto della mia più sconfinata ammirazione (era veramente una principessa, ero sicura che lo fosse, rapita e ritrovata nel bosco dalla moglie del medico) riusciva sempre a calmare qualsiasi acqua disturbata, sia da squali, spazzole o litigiose bambine, e a farci riprendere il gioco. Una volta Luba mi aveva preparato un libro. Era una storia meravigliosa, illustrata da lei, di un bambino che litiga con tutti. Dopo aver riflettuto, decide di chiedere scusa e fare la pace, e così è subito accolto con affetto da tutti quanti. Soddisfatto, torna a casa e mangia uova e patatine fritte (con ketchup). Era ritratto sull’ultima pagina in profilo, con un maglione giallo, intento a gustare la giusta compensa per tanta saggezza.
Luba era anche una maga della tecnologia. Era riuscita addirittura a pinzare le pagine. Veneravo il libro.
“No! Io faccio Bianca Neve! E’ stata una mia idea!”
Erano incominciate le trattative per vedere chi aveva le carte più in regola per assumere il ruolo della principessa con la pelle bianca come la neve, le labbra rosse come il sangue e i capelli neri come il carbone.
“Non puoi. Nel mio libro Bianca Neve ha i capelli lunghi. Io ho i capelli lunghi e tu no, li hai corti.”
Ero convinta della genialità del mio ragionamento, inappellabile.
“E invece nel film di Walt Disney li ha corti e neri, come me!”
Pareggio. Era vero. Più neri dei capelli di Yemma non si poteva.
“E allora io so cosa significa essere innamorata!”
“Ah sì? E di chi?”
Battuta. Come potevo ammettere a Yemma di essere follemente innamorata di Brian, suo fratello di nove anni? Non potevo. Era troppo. E poi, se Brian lo venisse a sapere… No, no, era troppo. Il mio principe, Brian il Buono, sempre lì a togliermi dai guai. Sempre lì ad aiutarmi a scendere dagli alberi che ero bravissima a scalare ma meno capace di scendere. Sempre lì a sistemare la gomma della mia scassatissima bicicletta dalla quale chiedevo prove ben oltre quelle che era disegnata a superare. Dolce Brian che era disposto persino a prendere a pugni un bambino che mi aveva sparato addosso una freccia dal suo arco. Che era poi suo fratello, Swinton il Cattivo, ragazzino undicenne che ce l’aveva con il mondo e soprattutto con una peste di cinque anni che era sempre a curiosare a casa sua.
Brian il Buono era pronto a sfidare persino suo fratello maggiore per me.
Come non adorarlo?
Mia madre si ricorda ancora l’attacco isterico che ho subito quando Brian è stato punito da suo padre per un vetro rotto. Suo padre aveva creduto in buona fede che l’opera era di suo secondogenito, che da nobile principe quale era non ha mai tradito suo fratello. Muto, ha preso la sculacciata. Ho messo qualcosa come cinque ore per riprendermi prima di poter uscire alla ricerca di Yemma per fare un qualche assalto alle vette di un qualche albero ancora non conquistato.
“Beh, lascia stare. Comunque io ho le labbra rossa come il sangue.”
“E allora? Pure io. E più grosse.”
Niente da fare. Per questa volta la vispa Yemma aveva la vittoria.
“E va bene. Tu fai Bianca Neve e io faccio la strega. Vado a prendere il capotto della mamma per fare il mantello.”
Abbiamo giocato tutto il pomeriggio e io ho scoperto l’amore per i ruoli difficili, gente con turbe psichiche e tendenze psicopatiche a chi non si affiderebbe mai una motosega, che non mi ha mai lasciato, e che ancora oggi influenza il mio lavoro. Mia madre, costumista mancata, mi ha prestato il capotto, ed è nato l’amore per i costumi. Yemma è stata una principessa dolce e convincente. Forse ha tratto ispirazione da sua sorella. Forse era una bravissima attrice. Forse era davvero dolce ma la vita da diversa da tutti le aveva insegnato la forza.
E per tutto il pomeriggio la principessa con la pelle bianca come la neve è stata interpretata da una bambina nigeriana nera come il carbone.
Non era tatto. Non era politically correct.
Semplicemente il fatto non ci era venuto in mente.
Poco dopo, il contratto del dottore è scaduto e ha deciso di tornare a casa con la famiglia. La perdita di Swinton e le sue frecce non mi ha traumatizzata.
Ma com’erano vuote le giornate senza Yemma, Luba e Brian. Com’erano grigie, fiacche, spente.
Così vivi, così vivaci erano i tre bambini, che ancora a distanza di trentacinque anni e un continente intero, sono qui al mio fianco a darmi pizzicotti, ad accarezzarmi la testa, a consigliarmi come meglio scendere dall’albero e togliermi dai guai di turno.
Le loro voci, le loro risate, i loro respiri, presenti come allora.