Sunday, May 27, 2007

Penelope è partita, Penelope è tornata: Spartito per Coro di Quattro Voci

AGNES: Soprano (sopra, più in alto, ormai partita per l’ultima meta e da lì ci contempla.)
Ci è voluto del tempo che lei si abituasse a questo paese. Ma ormai a novant’anni lo apprezza. Seduta in balcone sulla sedia di vimini col cuscino, ormai una specie di appendice, che porta la sua impronta e sa di lei anche quando non c’è, lei apprezza la perfetta, stirata distesa azzurra del cielo sopra Melbourne, apprezza il calore autunnale (autunno ad aprile - nonostante stia qui da trent’anni, questo ancora la sorprende tutte le volte). Seduta in vestaglia con in testa la retina che tiene in ordine i capelli, chiude gli occhi per meglio sentire il calore del sole che penetra le sua ossa..
Ma nel momento in cui chiude gli occhi, le si accende l’olfatto. Poco fa ha messo delle mele sbucciate a stufare in un poco di acqua. E’ seduta accanto alla portafinestra del cucinotto, e da lì arriva silenzioso, sottile, tenuo da essere soltanto un vago suggerimento, il profumo di mele cotte.
Mele cotte. Autunno. Nonostante sia aprile. L’autunno non è aprile. E’ ottobre.
Mele cotte. Sua mamma Jane, piccola e tosta, che sta a girare le mele sulla stufa.
Mele cotte. Rape, arancioni e pepate. Patate, sempre. Dolce friabile shortbread di domenica, biscotto nazionale della Scozia. “Il re dei biscotti” diceva sempre la mamma, che non era mai stata da nessuna parte, ma sapeva di tutto su quel posto dove stava.
Sua mamma era cresciuta, si era innamorata, sposata, aveva partorito e cresciuto cinque figli, aveva pianto uno di loro andato perso in Francia nella guerra (che avevano detto sarebbe finita per Natale, ma invece no, invece no) tutto in quel posto lì. E sembrava ad Agnes che mentre lei era dovuta andare fuori nel mondo a cercare quel poco di saggezza che credeva di avere, era stata la saggezza stessa a venire da sua mamma Jane, che aveva dovuto soltanto accoglierla in grembo. Come faceva con i suoi figli e i suoi gattini.
Mele cotte, mele da raccogliere, foglie verdi, scure e lucide sotto la pioggerellina. Leggera nube di acqua che bagna tutto. Entra persino nei vestiti, negli stivali. Turba e disturba e sveglia, sprigiona il respiro della terra, il profumo dell’erba, delle foglie, delle mele, del legno. Tutto diventa di più, tutto diventa morbido e arrende le sue essenze, che si sentono anche dopo, quando gli stivali sono sotto la stufa ad asciugare, e la mamma sta scodellando le mele cotte.
Di colpo ad Agnes fa male il torace, un dolore forte. A sessant’anni aveva lasciato Glasgow, grigia e pesante, per seguire i suoi figli, e soprattutto sua figlia Moira, in questa terra calda, arsa, rossa. Non si era mai pentita, non le era mai mancata Glasgow qui tra i colori stridenti dell’Australia.
Fa proprio male. Porta la mano al petto. Non è il cuore, sa com’è il cuore. Cos’è? Sono le mele. Maledette mele cotte… I tempi prima di Glasgow, i tempi della verde e umida e dolce campagna di Dumfries. Erano decenni che non ci pensava più. Ora quelle mele, quelle maledette mele…
Casa. Aveva voglia. D’improvviso.


MOIRA (alto, dall’alto il suo magico sguardo protettivo penetra migliaia di kilometri)
Sta con le mani appoggiate al legno del parapetto. La nave non barcolla per niente. Sta diritta sulla sua rotta e glissa via. Melbourne sparisce lentamente. E’ quasi all’orizzonte ormai e tra breve scivolerà via, scivolerà giù dall’altra parte della riga tra mare e cielo.
Dall’esperienza sa che starà meglio, ma per ora non sta affatto bene. E’ tutto un terribile déjà vu. Sette anni prima, sulla stessa nave, stessa rotta, si era aggrappata alla balaustra mentre salpavano da Southampton e si rimpicciolivano prima sua madre, poi il molo, e poi la città, la costa, il paese.
Questa volta aveva salutato sua madre sul balcone. Ormai alla sua età non poteva più arrivare fino al porto. Sua madre seduta sulla sedia di vimini con la sua vestaglia e la stessa orrenda retina che si metteva da sempre, abitudine di tempi passati, tempi di thé dansant e guantini bianchi. Lei invece aveva fatto gli anni dei fiori nei capelli, delle feste in spiaggia.
Il dolore al petto cresce man mano la città sparisce. Com’era piccola di colpo sua madre, che non avrebbe mai più visto. Com’era stranamente semplice guardarle negli occhi e salutarla. Era dopo che faceva male. Come il taglio del coltello. Al momento non si sente nulla, ma dopo…dopo… Oggi il recidere definitivo del cordone ombelicale. Oggi lascia sua madre per l’ultima volta. Sarebbe con ogni probabilità andata via tante altre volte, da tante cose, ma mai più da sua madre.
Il viaggio, aveva deciso, se lo sarebbe goduto. Aveva speso tutto lo stipendio mensile penultimo in un splendido abito da cocktail nero con giacchino di pizzo. Avrebbe partecipato a tutte le cene, le serate danzanti, le festine, i cocktails. Erano sei mesi che preparava questo viaggio al rovescio, verso la Scozia. Non ci sarebbe rimasta che un paio di mesi, il tempo per stare un po’ da sua zia e completare un lavoro da agenzia nell’ospedaletto di campagna lì da lei, e poi via di nuovo. Questa volta Messico, altro paese di sole e risate e colori violenti. In quei due mesi avrebbe recuperato un po’ suo paese, avrebbe dato un’occhiata, annotato i cambiamenti. E poi via di nuovo… Via…


JANE (tenore: di vita? Lasciamo perdere, non si campa con la scrittura!)
Sono nata dalla terra di Confine.
Chiedi ad uno nato in quella terra da dove viene, e ti risponderà, “dal Confine”.
Chiedi ad uno nato in quella terra se è scozzese e ti risponderà, “sì, del Confine però.”
Dove sono nata io è un posto con tanti nomi: il Regno Unito, la Gran Bretagna, la Scozia. Ma quando vieni dal Confine, stai su un sottile filo che non è veramente nessuno di questi posti. Non sei di lì. Di dove sei? Del Confine.
Sono nata da un padre da una famiglia fissa e stabile e immobile da secoli nella sua instabile e incerta identità di Confine, e una donna dai piedi vagabondi. Un anno prima della mia nascita quei piedi erano dall’altra parte del mondo. Per mesi hanno navigato intorno al globo finché non sono stati fermati di colpo da un uomo del Confine. La mia madre scozzese presbiteriana non è più partita per il Messico: mi ha partorito in un ospedale in Edimburgo sfoggiando la fine dell’abbronzatura australiana mentre cantava canzoni ebree di un est europeo per tenere a bada il dolore.
Da mio padre ho preso il Confine e da mia madre ho preso i piedi vagabondi, che ora stanno fermi, col prurito eterno, in un posto poco distante da un confine internazionale, in una lingua che non è mia.
Che lingua parli? Non so. Parlo una lingua di Confine tra scozzese e inglese, non interamente né l’una né l’altra. Opero ogni giorno in una lingua che non è mia e per la quale sarò sempre un ospite. I miei bambini la parlano. Non conoscono la mia lingua meticcia di Confine. A volte qui mi sbaglio, fatico. Poi torno a casa d’estate e trovo che la mia lingua è andata avanti senza di me. Sto sul Confine di una lingua moderna e un’altra obsoleta. Non parlo più la lingua di nessuno. La mia è andata persa da qualche parte.
Mai veramente dentro nulla. Mai una cosa o l’altra. Mai proprio così. Sempre in equilibrio difficile sull’orlo, sospesa, quasi, quasi, quasi…


AGNESE (basso – infatti è alta 105cm)
Ho tre anni, tre, guarda che ti faccio vedere con le dita. Uno, due, tre, e questo è un pezzo, questo mezzo dito è un pezzo di un anno. Io ho i capelli rossi, mia mamma ride e dice che sono una scozzese doc. Mia mamma parla buffo. Parla anche come me qualche volta ma parla anche buffo. Io parlo solo un po’ buffo. Quando viene l’estate mia mamma mi porta su un aereo. Guardo fuori dalla finestra e vedo correre la terra. Poi il mare, ma non il mare come quando vado a fare il bagno. Il mare tanto, tanto. Poi c’è ancora terra, e mia mamma piange e ride e parla solo buffo. Poi arriviamo e prendiamo le nostre cose, e andiamo fuori da una porta grande grande che è anche magica, perché tutte le volte dietro alla porta c’è mia Nonna Moira. Anche lei parla buffo. E mi abbraccia forte e sorride e mi dice che sembro sua mamma che aveva anche il mio nome, ma in buffo, e quando arriviamo a casa sua mi fa le mele, le mele cotte. Mi piacciono le mele cotte.