Girovagando da sola in una villa abandonata, l'ho incontrata sulle scale...
Monday, September 27, 2010
Wednesday, April 15, 2009
Biancaneve
"Insieme nella Diversità" (Concorso Nazionale Auser La Città che Apprende 2008, racconto segnalato)
*******************************************************************************
“Giochiamo a Bianca Neve?”
“Sì, sì, dai!”
Yemma è la mia migliore amica, Yemma è la bambina che cerco prima delle altre. Stiamo decidendo a cosa giocare. E’ estate, che non vuol dire granché qui in Scozia, ma significa almeno che si può giocare fuori gran parte della giornata, per la gioia delle mamme, quasi tutte a casa a tempo pieno. Sia la mia che quella di Yemma stanno a casa. Mio papà fa il veterinario, quello di Yemma fa il medico nell’ospedale locale. Tutti e due i papà leggono il giornale mentre la mamma pulisce la moquette. La mia mamma ha un aspirapolvere della marca Hoover che assomiglia vagamente a uno squalo martello. La mamma di Yemma ha una strana spazzola rotante che passa su un bastone.
Tutti e due i papà hanno un sesto senso per quanto riguarda l’esatto momento di alzare i piedi , quanto tenerli alzati e quando abbassarli nelle acque ora sicure.
“Allora faccio io Bianca Neve, e tu fai la strega.”
Yemma è forte e decisa. Mi piace. La adoro. Mi sembra me, o almeno me come vorrei essere. Yemma vibra, spruzza colori. Ha una parlata rapida con un accento bellissimo: sembra legno di foresta, forte, spesso e solido.
A cinque anni la mia esperienza di accenti non era vasta, ma avevo sentito parlare una francese e un italiano. I loro accenti erano farfalle, erano fiori nel vento. Leggeri, veloci, parole come coriandoli nell’aria. Mi piacevano molto, ma quello di Yemma ancora di più.
Ci provo con le lusinghe.
“Ma no! Voglio fare io Bianca Neve! Fai tu la strega. Sei bravissima a fare la strega, sei fantastica!”
Yemma è forte e determinata. Io sono testarda. Non so bene nemmeno ora quale sia la differenza, ma già la avvertivo. Criterio? Forse Yemma aveva delle criteria e io soltanto voglia di far fare come dicevo io.
La sorella maggiore di Yemma era una giovane donna di ben 8 anni, Luba. Luba non era testarda, e apparentemente non era nemmeno forte e determinata. Ma stranamente la dolcissima Luba, la mia eroina e oggetto della mia più sconfinata ammirazione (era veramente una principessa, ero sicura che lo fosse, rapita e ritrovata nel bosco dalla moglie del medico) riusciva sempre a calmare qualsiasi acqua disturbata, sia da squali, spazzole o litigiose bambine, e a farci riprendere il gioco. Una volta Luba mi aveva preparato un libro. Era una storia meravigliosa, illustrata da lei, di un bambino che litiga con tutti. Dopo aver riflettuto, decide di chiedere scusa e fare la pace, e così è subito accolto con affetto da tutti quanti. Soddisfatto, torna a casa e mangia uova e patatine fritte (con ketchup). Era ritratto sull’ultima pagina in profilo, con un maglione giallo, intento a gustare la giusta compensa per tanta saggezza.
Luba era anche una maga della tecnologia. Era riuscita addirittura a pinzare le pagine. Veneravo il libro.
“No! Io faccio Bianca Neve! E’ stata una mia idea!”
Erano incominciate le trattative per vedere chi aveva le carte più in regola per assumere il ruolo della principessa con la pelle bianca come la neve, le labbra rosse come il sangue e i capelli neri come il carbone.
“Non puoi. Nel mio libro Bianca Neve ha i capelli lunghi. Io ho i capelli lunghi e tu no, li hai corti.”
Ero convinta della genialità del mio ragionamento, inappellabile.
“E invece nel film di Walt Disney li ha corti e neri, come me!”
Pareggio. Era vero. Più neri dei capelli di Yemma non si poteva.
“E allora io so cosa significa essere innamorata!”
“Ah sì? E di chi?”
Battuta. Come potevo ammettere a Yemma di essere follemente innamorata di Brian, suo fratello di nove anni? Non potevo. Era troppo. E poi, se Brian lo venisse a sapere… No, no, era troppo. Il mio principe, Brian il Buono, sempre lì a togliermi dai guai. Sempre lì ad aiutarmi a scendere dagli alberi che ero bravissima a scalare ma meno capace di scendere. Sempre lì a sistemare la gomma della mia scassatissima bicicletta dalla quale chiedevo prove ben oltre quelle che era disegnata a superare. Dolce Brian che era disposto persino a prendere a pugni un bambino che mi aveva sparato addosso una freccia dal suo arco. Che era poi suo fratello, Swinton il Cattivo, ragazzino undicenne che ce l’aveva con il mondo e soprattutto con una peste di cinque anni che era sempre a curiosare a casa sua.
Brian il Buono era pronto a sfidare persino suo fratello maggiore per me.
Come non adorarlo?
Mia madre si ricorda ancora l’attacco isterico che ho subito quando Brian è stato punito da suo padre per un vetro rotto. Suo padre aveva creduto in buona fede che l’opera era di suo secondogenito, che da nobile principe quale era non ha mai tradito suo fratello. Muto, ha preso la sculacciata. Ho messo qualcosa come cinque ore per riprendermi prima di poter uscire alla ricerca di Yemma per fare un qualche assalto alle vette di un qualche albero ancora non conquistato.
“Beh, lascia stare. Comunque io ho le labbra rossa come il sangue.”
“E allora? Pure io. E più grosse.”
Niente da fare. Per questa volta la vispa Yemma aveva la vittoria.
“E va bene. Tu fai Bianca Neve e io faccio la strega. Vado a prendere il capotto della mamma per fare il mantello.”
Abbiamo giocato tutto il pomeriggio e io ho scoperto l’amore per i ruoli difficili, gente con turbe psichiche e tendenze psicopatiche a chi non si affiderebbe mai una motosega, che non mi ha mai lasciato, e che ancora oggi influenza il mio lavoro. Mia madre, costumista mancata, mi ha prestato il capotto, ed è nato l’amore per i costumi. Yemma è stata una principessa dolce e convincente. Forse ha tratto ispirazione da sua sorella. Forse era una bravissima attrice. Forse era davvero dolce ma la vita da diversa da tutti le aveva insegnato la forza.
E per tutto il pomeriggio la principessa con la pelle bianca come la neve è stata interpretata da una bambina nigeriana nera come il carbone.
Non era tatto. Non era politically correct.
Semplicemente il fatto non ci era venuto in mente.
Poco dopo, il contratto del dottore è scaduto e ha deciso di tornare a casa con la famiglia. La perdita di Swinton e le sue frecce non mi ha traumatizzata.
Ma com’erano vuote le giornate senza Yemma, Luba e Brian. Com’erano grigie, fiacche, spente.
Così vivi, così vivaci erano i tre bambini, che ancora a distanza di trentacinque anni e un continente intero, sono qui al mio fianco a darmi pizzicotti, ad accarezzarmi la testa, a consigliarmi come meglio scendere dall’albero e togliermi dai guai di turno.
Le loro voci, le loro risate, i loro respiri, presenti come allora.
*******************************************************************************
“Giochiamo a Bianca Neve?”
“Sì, sì, dai!”
Yemma è la mia migliore amica, Yemma è la bambina che cerco prima delle altre. Stiamo decidendo a cosa giocare. E’ estate, che non vuol dire granché qui in Scozia, ma significa almeno che si può giocare fuori gran parte della giornata, per la gioia delle mamme, quasi tutte a casa a tempo pieno. Sia la mia che quella di Yemma stanno a casa. Mio papà fa il veterinario, quello di Yemma fa il medico nell’ospedale locale. Tutti e due i papà leggono il giornale mentre la mamma pulisce la moquette. La mia mamma ha un aspirapolvere della marca Hoover che assomiglia vagamente a uno squalo martello. La mamma di Yemma ha una strana spazzola rotante che passa su un bastone.
Tutti e due i papà hanno un sesto senso per quanto riguarda l’esatto momento di alzare i piedi , quanto tenerli alzati e quando abbassarli nelle acque ora sicure.
“Allora faccio io Bianca Neve, e tu fai la strega.”
Yemma è forte e decisa. Mi piace. La adoro. Mi sembra me, o almeno me come vorrei essere. Yemma vibra, spruzza colori. Ha una parlata rapida con un accento bellissimo: sembra legno di foresta, forte, spesso e solido.
A cinque anni la mia esperienza di accenti non era vasta, ma avevo sentito parlare una francese e un italiano. I loro accenti erano farfalle, erano fiori nel vento. Leggeri, veloci, parole come coriandoli nell’aria. Mi piacevano molto, ma quello di Yemma ancora di più.
Ci provo con le lusinghe.
“Ma no! Voglio fare io Bianca Neve! Fai tu la strega. Sei bravissima a fare la strega, sei fantastica!”
Yemma è forte e determinata. Io sono testarda. Non so bene nemmeno ora quale sia la differenza, ma già la avvertivo. Criterio? Forse Yemma aveva delle criteria e io soltanto voglia di far fare come dicevo io.
La sorella maggiore di Yemma era una giovane donna di ben 8 anni, Luba. Luba non era testarda, e apparentemente non era nemmeno forte e determinata. Ma stranamente la dolcissima Luba, la mia eroina e oggetto della mia più sconfinata ammirazione (era veramente una principessa, ero sicura che lo fosse, rapita e ritrovata nel bosco dalla moglie del medico) riusciva sempre a calmare qualsiasi acqua disturbata, sia da squali, spazzole o litigiose bambine, e a farci riprendere il gioco. Una volta Luba mi aveva preparato un libro. Era una storia meravigliosa, illustrata da lei, di un bambino che litiga con tutti. Dopo aver riflettuto, decide di chiedere scusa e fare la pace, e così è subito accolto con affetto da tutti quanti. Soddisfatto, torna a casa e mangia uova e patatine fritte (con ketchup). Era ritratto sull’ultima pagina in profilo, con un maglione giallo, intento a gustare la giusta compensa per tanta saggezza.
Luba era anche una maga della tecnologia. Era riuscita addirittura a pinzare le pagine. Veneravo il libro.
“No! Io faccio Bianca Neve! E’ stata una mia idea!”
Erano incominciate le trattative per vedere chi aveva le carte più in regola per assumere il ruolo della principessa con la pelle bianca come la neve, le labbra rosse come il sangue e i capelli neri come il carbone.
“Non puoi. Nel mio libro Bianca Neve ha i capelli lunghi. Io ho i capelli lunghi e tu no, li hai corti.”
Ero convinta della genialità del mio ragionamento, inappellabile.
“E invece nel film di Walt Disney li ha corti e neri, come me!”
Pareggio. Era vero. Più neri dei capelli di Yemma non si poteva.
“E allora io so cosa significa essere innamorata!”
“Ah sì? E di chi?”
Battuta. Come potevo ammettere a Yemma di essere follemente innamorata di Brian, suo fratello di nove anni? Non potevo. Era troppo. E poi, se Brian lo venisse a sapere… No, no, era troppo. Il mio principe, Brian il Buono, sempre lì a togliermi dai guai. Sempre lì ad aiutarmi a scendere dagli alberi che ero bravissima a scalare ma meno capace di scendere. Sempre lì a sistemare la gomma della mia scassatissima bicicletta dalla quale chiedevo prove ben oltre quelle che era disegnata a superare. Dolce Brian che era disposto persino a prendere a pugni un bambino che mi aveva sparato addosso una freccia dal suo arco. Che era poi suo fratello, Swinton il Cattivo, ragazzino undicenne che ce l’aveva con il mondo e soprattutto con una peste di cinque anni che era sempre a curiosare a casa sua.
Brian il Buono era pronto a sfidare persino suo fratello maggiore per me.
Come non adorarlo?
Mia madre si ricorda ancora l’attacco isterico che ho subito quando Brian è stato punito da suo padre per un vetro rotto. Suo padre aveva creduto in buona fede che l’opera era di suo secondogenito, che da nobile principe quale era non ha mai tradito suo fratello. Muto, ha preso la sculacciata. Ho messo qualcosa come cinque ore per riprendermi prima di poter uscire alla ricerca di Yemma per fare un qualche assalto alle vette di un qualche albero ancora non conquistato.
“Beh, lascia stare. Comunque io ho le labbra rossa come il sangue.”
“E allora? Pure io. E più grosse.”
Niente da fare. Per questa volta la vispa Yemma aveva la vittoria.
“E va bene. Tu fai Bianca Neve e io faccio la strega. Vado a prendere il capotto della mamma per fare il mantello.”
Abbiamo giocato tutto il pomeriggio e io ho scoperto l’amore per i ruoli difficili, gente con turbe psichiche e tendenze psicopatiche a chi non si affiderebbe mai una motosega, che non mi ha mai lasciato, e che ancora oggi influenza il mio lavoro. Mia madre, costumista mancata, mi ha prestato il capotto, ed è nato l’amore per i costumi. Yemma è stata una principessa dolce e convincente. Forse ha tratto ispirazione da sua sorella. Forse era una bravissima attrice. Forse era davvero dolce ma la vita da diversa da tutti le aveva insegnato la forza.
E per tutto il pomeriggio la principessa con la pelle bianca come la neve è stata interpretata da una bambina nigeriana nera come il carbone.
Non era tatto. Non era politically correct.
Semplicemente il fatto non ci era venuto in mente.
Poco dopo, il contratto del dottore è scaduto e ha deciso di tornare a casa con la famiglia. La perdita di Swinton e le sue frecce non mi ha traumatizzata.
Ma com’erano vuote le giornate senza Yemma, Luba e Brian. Com’erano grigie, fiacche, spente.
Così vivi, così vivaci erano i tre bambini, che ancora a distanza di trentacinque anni e un continente intero, sono qui al mio fianco a darmi pizzicotti, ad accarezzarmi la testa, a consigliarmi come meglio scendere dall’albero e togliermi dai guai di turno.
Le loro voci, le loro risate, i loro respiri, presenti come allora.
Sunday, May 27, 2007
Penelope è partita, Penelope è tornata: Spartito per Coro di Quattro Voci
AGNES: Soprano (sopra, più in alto, ormai partita per l’ultima meta e da lì ci contempla.)
Ci è voluto del tempo che lei si abituasse a questo paese. Ma ormai a novant’anni lo apprezza. Seduta in balcone sulla sedia di vimini col cuscino, ormai una specie di appendice, che porta la sua impronta e sa di lei anche quando non c’è, lei apprezza la perfetta, stirata distesa azzurra del cielo sopra Melbourne, apprezza il calore autunnale (autunno ad aprile - nonostante stia qui da trent’anni, questo ancora la sorprende tutte le volte). Seduta in vestaglia con in testa la retina che tiene in ordine i capelli, chiude gli occhi per meglio sentire il calore del sole che penetra le sua ossa..
Ma nel momento in cui chiude gli occhi, le si accende l’olfatto. Poco fa ha messo delle mele sbucciate a stufare in un poco di acqua. E’ seduta accanto alla portafinestra del cucinotto, e da lì arriva silenzioso, sottile, tenuo da essere soltanto un vago suggerimento, il profumo di mele cotte.
Mele cotte. Autunno. Nonostante sia aprile. L’autunno non è aprile. E’ ottobre.
Mele cotte. Sua mamma Jane, piccola e tosta, che sta a girare le mele sulla stufa.
Mele cotte. Rape, arancioni e pepate. Patate, sempre. Dolce friabile shortbread di domenica, biscotto nazionale della Scozia. “Il re dei biscotti” diceva sempre la mamma, che non era mai stata da nessuna parte, ma sapeva di tutto su quel posto dove stava.
Sua mamma era cresciuta, si era innamorata, sposata, aveva partorito e cresciuto cinque figli, aveva pianto uno di loro andato perso in Francia nella guerra (che avevano detto sarebbe finita per Natale, ma invece no, invece no) tutto in quel posto lì. E sembrava ad Agnes che mentre lei era dovuta andare fuori nel mondo a cercare quel poco di saggezza che credeva di avere, era stata la saggezza stessa a venire da sua mamma Jane, che aveva dovuto soltanto accoglierla in grembo. Come faceva con i suoi figli e i suoi gattini.
Mele cotte, mele da raccogliere, foglie verdi, scure e lucide sotto la pioggerellina. Leggera nube di acqua che bagna tutto. Entra persino nei vestiti, negli stivali. Turba e disturba e sveglia, sprigiona il respiro della terra, il profumo dell’erba, delle foglie, delle mele, del legno. Tutto diventa di più, tutto diventa morbido e arrende le sue essenze, che si sentono anche dopo, quando gli stivali sono sotto la stufa ad asciugare, e la mamma sta scodellando le mele cotte.
Di colpo ad Agnes fa male il torace, un dolore forte. A sessant’anni aveva lasciato Glasgow, grigia e pesante, per seguire i suoi figli, e soprattutto sua figlia Moira, in questa terra calda, arsa, rossa. Non si era mai pentita, non le era mai mancata Glasgow qui tra i colori stridenti dell’Australia.
Fa proprio male. Porta la mano al petto. Non è il cuore, sa com’è il cuore. Cos’è? Sono le mele. Maledette mele cotte… I tempi prima di Glasgow, i tempi della verde e umida e dolce campagna di Dumfries. Erano decenni che non ci pensava più. Ora quelle mele, quelle maledette mele…
Casa. Aveva voglia. D’improvviso.
MOIRA (alto, dall’alto il suo magico sguardo protettivo penetra migliaia di kilometri)
Sta con le mani appoggiate al legno del parapetto. La nave non barcolla per niente. Sta diritta sulla sua rotta e glissa via. Melbourne sparisce lentamente. E’ quasi all’orizzonte ormai e tra breve scivolerà via, scivolerà giù dall’altra parte della riga tra mare e cielo.
Dall’esperienza sa che starà meglio, ma per ora non sta affatto bene. E’ tutto un terribile déjà vu. Sette anni prima, sulla stessa nave, stessa rotta, si era aggrappata alla balaustra mentre salpavano da Southampton e si rimpicciolivano prima sua madre, poi il molo, e poi la città, la costa, il paese.
Questa volta aveva salutato sua madre sul balcone. Ormai alla sua età non poteva più arrivare fino al porto. Sua madre seduta sulla sedia di vimini con la sua vestaglia e la stessa orrenda retina che si metteva da sempre, abitudine di tempi passati, tempi di thé dansant e guantini bianchi. Lei invece aveva fatto gli anni dei fiori nei capelli, delle feste in spiaggia.
Il dolore al petto cresce man mano la città sparisce. Com’era piccola di colpo sua madre, che non avrebbe mai più visto. Com’era stranamente semplice guardarle negli occhi e salutarla. Era dopo che faceva male. Come il taglio del coltello. Al momento non si sente nulla, ma dopo…dopo… Oggi il recidere definitivo del cordone ombelicale. Oggi lascia sua madre per l’ultima volta. Sarebbe con ogni probabilità andata via tante altre volte, da tante cose, ma mai più da sua madre.
Il viaggio, aveva deciso, se lo sarebbe goduto. Aveva speso tutto lo stipendio mensile penultimo in un splendido abito da cocktail nero con giacchino di pizzo. Avrebbe partecipato a tutte le cene, le serate danzanti, le festine, i cocktails. Erano sei mesi che preparava questo viaggio al rovescio, verso la Scozia. Non ci sarebbe rimasta che un paio di mesi, il tempo per stare un po’ da sua zia e completare un lavoro da agenzia nell’ospedaletto di campagna lì da lei, e poi via di nuovo. Questa volta Messico, altro paese di sole e risate e colori violenti. In quei due mesi avrebbe recuperato un po’ suo paese, avrebbe dato un’occhiata, annotato i cambiamenti. E poi via di nuovo… Via…
JANE (tenore: di vita? Lasciamo perdere, non si campa con la scrittura!)
Sono nata dalla terra di Confine.
Chiedi ad uno nato in quella terra da dove viene, e ti risponderà, “dal Confine”.
Chiedi ad uno nato in quella terra se è scozzese e ti risponderà, “sì, del Confine però.”
Dove sono nata io è un posto con tanti nomi: il Regno Unito, la Gran Bretagna, la Scozia. Ma quando vieni dal Confine, stai su un sottile filo che non è veramente nessuno di questi posti. Non sei di lì. Di dove sei? Del Confine.
Sono nata da un padre da una famiglia fissa e stabile e immobile da secoli nella sua instabile e incerta identità di Confine, e una donna dai piedi vagabondi. Un anno prima della mia nascita quei piedi erano dall’altra parte del mondo. Per mesi hanno navigato intorno al globo finché non sono stati fermati di colpo da un uomo del Confine. La mia madre scozzese presbiteriana non è più partita per il Messico: mi ha partorito in un ospedale in Edimburgo sfoggiando la fine dell’abbronzatura australiana mentre cantava canzoni ebree di un est europeo per tenere a bada il dolore.
Da mio padre ho preso il Confine e da mia madre ho preso i piedi vagabondi, che ora stanno fermi, col prurito eterno, in un posto poco distante da un confine internazionale, in una lingua che non è mia.
Che lingua parli? Non so. Parlo una lingua di Confine tra scozzese e inglese, non interamente né l’una né l’altra. Opero ogni giorno in una lingua che non è mia e per la quale sarò sempre un ospite. I miei bambini la parlano. Non conoscono la mia lingua meticcia di Confine. A volte qui mi sbaglio, fatico. Poi torno a casa d’estate e trovo che la mia lingua è andata avanti senza di me. Sto sul Confine di una lingua moderna e un’altra obsoleta. Non parlo più la lingua di nessuno. La mia è andata persa da qualche parte.
Mai veramente dentro nulla. Mai una cosa o l’altra. Mai proprio così. Sempre in equilibrio difficile sull’orlo, sospesa, quasi, quasi, quasi…
AGNESE (basso – infatti è alta 105cm)
Ho tre anni, tre, guarda che ti faccio vedere con le dita. Uno, due, tre, e questo è un pezzo, questo mezzo dito è un pezzo di un anno. Io ho i capelli rossi, mia mamma ride e dice che sono una scozzese doc. Mia mamma parla buffo. Parla anche come me qualche volta ma parla anche buffo. Io parlo solo un po’ buffo. Quando viene l’estate mia mamma mi porta su un aereo. Guardo fuori dalla finestra e vedo correre la terra. Poi il mare, ma non il mare come quando vado a fare il bagno. Il mare tanto, tanto. Poi c’è ancora terra, e mia mamma piange e ride e parla solo buffo. Poi arriviamo e prendiamo le nostre cose, e andiamo fuori da una porta grande grande che è anche magica, perché tutte le volte dietro alla porta c’è mia Nonna Moira. Anche lei parla buffo. E mi abbraccia forte e sorride e mi dice che sembro sua mamma che aveva anche il mio nome, ma in buffo, e quando arriviamo a casa sua mi fa le mele, le mele cotte. Mi piacciono le mele cotte.
Ci è voluto del tempo che lei si abituasse a questo paese. Ma ormai a novant’anni lo apprezza. Seduta in balcone sulla sedia di vimini col cuscino, ormai una specie di appendice, che porta la sua impronta e sa di lei anche quando non c’è, lei apprezza la perfetta, stirata distesa azzurra del cielo sopra Melbourne, apprezza il calore autunnale (autunno ad aprile - nonostante stia qui da trent’anni, questo ancora la sorprende tutte le volte). Seduta in vestaglia con in testa la retina che tiene in ordine i capelli, chiude gli occhi per meglio sentire il calore del sole che penetra le sua ossa..
Ma nel momento in cui chiude gli occhi, le si accende l’olfatto. Poco fa ha messo delle mele sbucciate a stufare in un poco di acqua. E’ seduta accanto alla portafinestra del cucinotto, e da lì arriva silenzioso, sottile, tenuo da essere soltanto un vago suggerimento, il profumo di mele cotte.
Mele cotte. Autunno. Nonostante sia aprile. L’autunno non è aprile. E’ ottobre.
Mele cotte. Sua mamma Jane, piccola e tosta, che sta a girare le mele sulla stufa.
Mele cotte. Rape, arancioni e pepate. Patate, sempre. Dolce friabile shortbread di domenica, biscotto nazionale della Scozia. “Il re dei biscotti” diceva sempre la mamma, che non era mai stata da nessuna parte, ma sapeva di tutto su quel posto dove stava.
Sua mamma era cresciuta, si era innamorata, sposata, aveva partorito e cresciuto cinque figli, aveva pianto uno di loro andato perso in Francia nella guerra (che avevano detto sarebbe finita per Natale, ma invece no, invece no) tutto in quel posto lì. E sembrava ad Agnes che mentre lei era dovuta andare fuori nel mondo a cercare quel poco di saggezza che credeva di avere, era stata la saggezza stessa a venire da sua mamma Jane, che aveva dovuto soltanto accoglierla in grembo. Come faceva con i suoi figli e i suoi gattini.
Mele cotte, mele da raccogliere, foglie verdi, scure e lucide sotto la pioggerellina. Leggera nube di acqua che bagna tutto. Entra persino nei vestiti, negli stivali. Turba e disturba e sveglia, sprigiona il respiro della terra, il profumo dell’erba, delle foglie, delle mele, del legno. Tutto diventa di più, tutto diventa morbido e arrende le sue essenze, che si sentono anche dopo, quando gli stivali sono sotto la stufa ad asciugare, e la mamma sta scodellando le mele cotte.
Di colpo ad Agnes fa male il torace, un dolore forte. A sessant’anni aveva lasciato Glasgow, grigia e pesante, per seguire i suoi figli, e soprattutto sua figlia Moira, in questa terra calda, arsa, rossa. Non si era mai pentita, non le era mai mancata Glasgow qui tra i colori stridenti dell’Australia.
Fa proprio male. Porta la mano al petto. Non è il cuore, sa com’è il cuore. Cos’è? Sono le mele. Maledette mele cotte… I tempi prima di Glasgow, i tempi della verde e umida e dolce campagna di Dumfries. Erano decenni che non ci pensava più. Ora quelle mele, quelle maledette mele…
Casa. Aveva voglia. D’improvviso.
MOIRA (alto, dall’alto il suo magico sguardo protettivo penetra migliaia di kilometri)
Sta con le mani appoggiate al legno del parapetto. La nave non barcolla per niente. Sta diritta sulla sua rotta e glissa via. Melbourne sparisce lentamente. E’ quasi all’orizzonte ormai e tra breve scivolerà via, scivolerà giù dall’altra parte della riga tra mare e cielo.
Dall’esperienza sa che starà meglio, ma per ora non sta affatto bene. E’ tutto un terribile déjà vu. Sette anni prima, sulla stessa nave, stessa rotta, si era aggrappata alla balaustra mentre salpavano da Southampton e si rimpicciolivano prima sua madre, poi il molo, e poi la città, la costa, il paese.
Questa volta aveva salutato sua madre sul balcone. Ormai alla sua età non poteva più arrivare fino al porto. Sua madre seduta sulla sedia di vimini con la sua vestaglia e la stessa orrenda retina che si metteva da sempre, abitudine di tempi passati, tempi di thé dansant e guantini bianchi. Lei invece aveva fatto gli anni dei fiori nei capelli, delle feste in spiaggia.
Il dolore al petto cresce man mano la città sparisce. Com’era piccola di colpo sua madre, che non avrebbe mai più visto. Com’era stranamente semplice guardarle negli occhi e salutarla. Era dopo che faceva male. Come il taglio del coltello. Al momento non si sente nulla, ma dopo…dopo… Oggi il recidere definitivo del cordone ombelicale. Oggi lascia sua madre per l’ultima volta. Sarebbe con ogni probabilità andata via tante altre volte, da tante cose, ma mai più da sua madre.
Il viaggio, aveva deciso, se lo sarebbe goduto. Aveva speso tutto lo stipendio mensile penultimo in un splendido abito da cocktail nero con giacchino di pizzo. Avrebbe partecipato a tutte le cene, le serate danzanti, le festine, i cocktails. Erano sei mesi che preparava questo viaggio al rovescio, verso la Scozia. Non ci sarebbe rimasta che un paio di mesi, il tempo per stare un po’ da sua zia e completare un lavoro da agenzia nell’ospedaletto di campagna lì da lei, e poi via di nuovo. Questa volta Messico, altro paese di sole e risate e colori violenti. In quei due mesi avrebbe recuperato un po’ suo paese, avrebbe dato un’occhiata, annotato i cambiamenti. E poi via di nuovo… Via…
JANE (tenore: di vita? Lasciamo perdere, non si campa con la scrittura!)
Sono nata dalla terra di Confine.
Chiedi ad uno nato in quella terra da dove viene, e ti risponderà, “dal Confine”.
Chiedi ad uno nato in quella terra se è scozzese e ti risponderà, “sì, del Confine però.”
Dove sono nata io è un posto con tanti nomi: il Regno Unito, la Gran Bretagna, la Scozia. Ma quando vieni dal Confine, stai su un sottile filo che non è veramente nessuno di questi posti. Non sei di lì. Di dove sei? Del Confine.
Sono nata da un padre da una famiglia fissa e stabile e immobile da secoli nella sua instabile e incerta identità di Confine, e una donna dai piedi vagabondi. Un anno prima della mia nascita quei piedi erano dall’altra parte del mondo. Per mesi hanno navigato intorno al globo finché non sono stati fermati di colpo da un uomo del Confine. La mia madre scozzese presbiteriana non è più partita per il Messico: mi ha partorito in un ospedale in Edimburgo sfoggiando la fine dell’abbronzatura australiana mentre cantava canzoni ebree di un est europeo per tenere a bada il dolore.
Da mio padre ho preso il Confine e da mia madre ho preso i piedi vagabondi, che ora stanno fermi, col prurito eterno, in un posto poco distante da un confine internazionale, in una lingua che non è mia.
Che lingua parli? Non so. Parlo una lingua di Confine tra scozzese e inglese, non interamente né l’una né l’altra. Opero ogni giorno in una lingua che non è mia e per la quale sarò sempre un ospite. I miei bambini la parlano. Non conoscono la mia lingua meticcia di Confine. A volte qui mi sbaglio, fatico. Poi torno a casa d’estate e trovo che la mia lingua è andata avanti senza di me. Sto sul Confine di una lingua moderna e un’altra obsoleta. Non parlo più la lingua di nessuno. La mia è andata persa da qualche parte.
Mai veramente dentro nulla. Mai una cosa o l’altra. Mai proprio così. Sempre in equilibrio difficile sull’orlo, sospesa, quasi, quasi, quasi…
AGNESE (basso – infatti è alta 105cm)
Ho tre anni, tre, guarda che ti faccio vedere con le dita. Uno, due, tre, e questo è un pezzo, questo mezzo dito è un pezzo di un anno. Io ho i capelli rossi, mia mamma ride e dice che sono una scozzese doc. Mia mamma parla buffo. Parla anche come me qualche volta ma parla anche buffo. Io parlo solo un po’ buffo. Quando viene l’estate mia mamma mi porta su un aereo. Guardo fuori dalla finestra e vedo correre la terra. Poi il mare, ma non il mare come quando vado a fare il bagno. Il mare tanto, tanto. Poi c’è ancora terra, e mia mamma piange e ride e parla solo buffo. Poi arriviamo e prendiamo le nostre cose, e andiamo fuori da una porta grande grande che è anche magica, perché tutte le volte dietro alla porta c’è mia Nonna Moira. Anche lei parla buffo. E mi abbraccia forte e sorride e mi dice che sembro sua mamma che aveva anche il mio nome, ma in buffo, e quando arriviamo a casa sua mi fa le mele, le mele cotte. Mi piacciono le mele cotte.
Saturday, March 3, 2007
La Torre degli Arcobaleni
C’era una volta una Principessa Arrabbiata.
Era così arrabbiata, ma così arrabbiata, che andava in giro cavalcando il suo cavallo nero della criniera fiammeggiante per delle ore intere, calpestando le raccolte nei campi, sfasciando i cancelli e i recinti frutto di tanta fatica e generalmente infastidendo la brava gente del paese.
Perché il problema con le principesse è che le può fermare soltanto un Re.
Un giorno, mentre era fuori a distruggere il giardinetto di rose tanto amato e curato da qualche poverino, le capitò vicino un Principe Azzurro in sella ad un grande cavallo bianco.
“Ma ciao,” disse il Principe Azzurro alla Principessa Arrabbiata. “Tu sei proprio una bella gnocca. Ti va una trombata?”
Così irresistibile fu la faccia tosta del Principe Azzurro, con i suoi occhi sinceri e il suo sorrisone grande grosso, che la Principessa Arrabbiata si trovò completamente spaesata. La sua monta nera si fermò di colpo, zoccolo destro anteriore sospeso a mezz’aria sopra una rosa perfetta. Mai e poi mai la Principessa Arrabbiata l’aveva fermato per poi buttarsi giù dalla sella in questa maniera. Ma che cavolo stava succedendo?
La Principessa Arrabbiata si mise in piedi tra le rose, sfasciate e ridotte in tante poltiglie colorate, mise le mani sui fianchi, e contemplò il Principe Azzurro per un minuto intero.
“Va bene,” gli disse. “Vediamo cosa sai fare.”
Il Principe Azzurro le mostrò quello che sapeva fare, e così fulminata fu la Principessa Arrabbiata che immediatamente lo rapì e lo rinchiuse in una torre alta alta. Questo non piacque affatto al Principe Azzurro. Ammirò l’appartamento, apprezzò l’entusiasmo della Principessa Arrabbiata, ma non gli piacque per niente trovarsi rinchiuso. Per tirarsi un po’ su di morale mise delle bandiere ad arcobaleno alla finestra. E guardò la Principessa Arrabbiata sparire in groppa a suo cavallo nero.
La gente chiamò la torre La Torre degli Arcobaleni.
Notizie del principe incarcerato arrivarono alle orecchie del Re. Il Re non approvò. Chiamò immediatamente la Principessa Arrabbiata. La Principessa Arrabbiata entrò spavalda, gonnelle e capelli volandole intorno. Sperò in questa maniera di risultare particolarmente attraente e quindi ammorbidire l’eventuale sgridata che stesse per ricevere da parte dell’anziano Re.
“Mia cara,” le disse il vecchio Re, “mi sono giunte notizie di un Principe Azzurro rinchiuso in una torre degli arcobaleni, e ho motivo per credere che la faccenda ha qualcosa a che fare con te. Ho ragione?”
La Principessa Arrabbiata non rispose ma, arrossita, guardò il pavimento
“Mia cara, mi spieghi, qual è lo scopo di questa inutile deprivazione della libertà ad un individuo? Ci tengo ad informarti che in quanto sovrano di questo paese ho firmato la Dichiarazione dei Diritti Umani e che sono anche socio con abbonamento annuale di Amnesty International. Non posso tollerare un comportamento del genere.”
La Principessa Arrabbiata si rattristò.
“Ma lui mi piace,” obiettò, “e se non lo tengo sotto chiave scapperà, e non avrò più nulla da fare con le mie giornate che distruggere carote e siepi in giro per il paese.”
Il Re sospirò. “Già, ma qui si dismaga l'intelletto ”
“Si ché?” chiese la Principessa Arrabbiata.
“Si dismaga l'intelletto mia cara. Ci si crea dei casini insomma. E’ da Amleto. Dovresti leggere di più, sai.”
“Sarà la mia premura, sire,” rispose la Principessa Arrabbiata.
“Ora, lascia che cerchi di spiegarti una cosa,” disse il Re, un po’ più gentile. “Vedi, mia cara, ce ne sono due tipi di Principe Azzurro: i sassolini e i boomerangs. Se prendi in mano un sassolino e lo lanci, non tornerà. Lo potrai ammirare tra le tue mani per un momento, potrai meravigliarti mentre scintilla nell’aria per un secondo, e poi non avrai che questi due ricordi, e il fatto che ce ne sono tanti altri sassolini lì fuori.
Un boomerang invece è diverso.
Se lanci un boomerang, ti ringrazierà per l’aver rilasciato nell’aria che gli serve, per avergli donato la gioia del volo, per aver liberato i suoi colori in un grande, grazioso arco nella fragilità cristallina del cielo e del tempo. E così intensa sarà la sua gioia che quando comincia a rallentarsi, non scenderà solo come un sassolino, ma tornerà su se stesso per cercare la tua mano e supplicarti di lanciarlo di nuovo.
Mi sono spiegato?”
“Perfettamente,” gli rispose la Principessa Arrabbiata.
In sella al suo instancabile cavallo nero, galoppò fino alla Torre degli Arcobaleni. Da un nastrino che teneva legato intorno al suo collo prese una piccola chiave d’oro e aprì la porta.
Il Principe Azzurro, un po’ stanco, un po’ triste, alzò lo sguardo dalla sua lettura sulla geografia locale e la fabbricazione di scale di lenzuola. La Principessa Arrabbiata gli offrì la chiave.
“Questa adesso appartiene a te,” disse. “Ma voglio soltanto sapere, che tipo di Principe Azzurro sei?”
“Ah, vedo che il Re ti ha raccontato di sassolini e boomerangs. Grande storia, funziona sempre.”
“Non è una storia,” disse la Principessa Arrabbiata, con in faccia un’espressione molto simile a quella che indossava appena prima di calpestare il pollaio di qualcuno. “E’ la Verità. E allora, quale sei tu? Sasso o boomerang?”
“Ah, ma questo non è giusto,” rispose il Principe Azzurro con un sorriso birichino. “Vedi, dirtelo sarebbe come leggere l’ultima pagina di un libro per prima. Ora, a me piacciono da matti le storie. Mi piacciono gli inizi, mi piace in particolar modo lo svolgimento, ma non mi dicono nulla le fini delle storie. Quindi perché non lasciamo la fine per la fine?”
“Questa,” rispose la Principessa Non-Più-Arrabbiata togliendosi elegantemente la mutandina, “è un’ottima idea. Vuoi un pompino?”
Era così arrabbiata, ma così arrabbiata, che andava in giro cavalcando il suo cavallo nero della criniera fiammeggiante per delle ore intere, calpestando le raccolte nei campi, sfasciando i cancelli e i recinti frutto di tanta fatica e generalmente infastidendo la brava gente del paese.
Perché il problema con le principesse è che le può fermare soltanto un Re.
Un giorno, mentre era fuori a distruggere il giardinetto di rose tanto amato e curato da qualche poverino, le capitò vicino un Principe Azzurro in sella ad un grande cavallo bianco.
“Ma ciao,” disse il Principe Azzurro alla Principessa Arrabbiata. “Tu sei proprio una bella gnocca. Ti va una trombata?”
Così irresistibile fu la faccia tosta del Principe Azzurro, con i suoi occhi sinceri e il suo sorrisone grande grosso, che la Principessa Arrabbiata si trovò completamente spaesata. La sua monta nera si fermò di colpo, zoccolo destro anteriore sospeso a mezz’aria sopra una rosa perfetta. Mai e poi mai la Principessa Arrabbiata l’aveva fermato per poi buttarsi giù dalla sella in questa maniera. Ma che cavolo stava succedendo?
La Principessa Arrabbiata si mise in piedi tra le rose, sfasciate e ridotte in tante poltiglie colorate, mise le mani sui fianchi, e contemplò il Principe Azzurro per un minuto intero.
“Va bene,” gli disse. “Vediamo cosa sai fare.”
Il Principe Azzurro le mostrò quello che sapeva fare, e così fulminata fu la Principessa Arrabbiata che immediatamente lo rapì e lo rinchiuse in una torre alta alta. Questo non piacque affatto al Principe Azzurro. Ammirò l’appartamento, apprezzò l’entusiasmo della Principessa Arrabbiata, ma non gli piacque per niente trovarsi rinchiuso. Per tirarsi un po’ su di morale mise delle bandiere ad arcobaleno alla finestra. E guardò la Principessa Arrabbiata sparire in groppa a suo cavallo nero.
La gente chiamò la torre La Torre degli Arcobaleni.
Notizie del principe incarcerato arrivarono alle orecchie del Re. Il Re non approvò. Chiamò immediatamente la Principessa Arrabbiata. La Principessa Arrabbiata entrò spavalda, gonnelle e capelli volandole intorno. Sperò in questa maniera di risultare particolarmente attraente e quindi ammorbidire l’eventuale sgridata che stesse per ricevere da parte dell’anziano Re.
“Mia cara,” le disse il vecchio Re, “mi sono giunte notizie di un Principe Azzurro rinchiuso in una torre degli arcobaleni, e ho motivo per credere che la faccenda ha qualcosa a che fare con te. Ho ragione?”
La Principessa Arrabbiata non rispose ma, arrossita, guardò il pavimento
“Mia cara, mi spieghi, qual è lo scopo di questa inutile deprivazione della libertà ad un individuo? Ci tengo ad informarti che in quanto sovrano di questo paese ho firmato la Dichiarazione dei Diritti Umani e che sono anche socio con abbonamento annuale di Amnesty International. Non posso tollerare un comportamento del genere.”
La Principessa Arrabbiata si rattristò.
“Ma lui mi piace,” obiettò, “e se non lo tengo sotto chiave scapperà, e non avrò più nulla da fare con le mie giornate che distruggere carote e siepi in giro per il paese.”
Il Re sospirò. “Già, ma qui si dismaga l'intelletto ”
“Si ché?” chiese la Principessa Arrabbiata.
“Si dismaga l'intelletto mia cara. Ci si crea dei casini insomma. E’ da Amleto. Dovresti leggere di più, sai.”
“Sarà la mia premura, sire,” rispose la Principessa Arrabbiata.
“Ora, lascia che cerchi di spiegarti una cosa,” disse il Re, un po’ più gentile. “Vedi, mia cara, ce ne sono due tipi di Principe Azzurro: i sassolini e i boomerangs. Se prendi in mano un sassolino e lo lanci, non tornerà. Lo potrai ammirare tra le tue mani per un momento, potrai meravigliarti mentre scintilla nell’aria per un secondo, e poi non avrai che questi due ricordi, e il fatto che ce ne sono tanti altri sassolini lì fuori.
Un boomerang invece è diverso.
Se lanci un boomerang, ti ringrazierà per l’aver rilasciato nell’aria che gli serve, per avergli donato la gioia del volo, per aver liberato i suoi colori in un grande, grazioso arco nella fragilità cristallina del cielo e del tempo. E così intensa sarà la sua gioia che quando comincia a rallentarsi, non scenderà solo come un sassolino, ma tornerà su se stesso per cercare la tua mano e supplicarti di lanciarlo di nuovo.
Mi sono spiegato?”
“Perfettamente,” gli rispose la Principessa Arrabbiata.
In sella al suo instancabile cavallo nero, galoppò fino alla Torre degli Arcobaleni. Da un nastrino che teneva legato intorno al suo collo prese una piccola chiave d’oro e aprì la porta.
Il Principe Azzurro, un po’ stanco, un po’ triste, alzò lo sguardo dalla sua lettura sulla geografia locale e la fabbricazione di scale di lenzuola. La Principessa Arrabbiata gli offrì la chiave.
“Questa adesso appartiene a te,” disse. “Ma voglio soltanto sapere, che tipo di Principe Azzurro sei?”
“Ah, vedo che il Re ti ha raccontato di sassolini e boomerangs. Grande storia, funziona sempre.”
“Non è una storia,” disse la Principessa Arrabbiata, con in faccia un’espressione molto simile a quella che indossava appena prima di calpestare il pollaio di qualcuno. “E’ la Verità. E allora, quale sei tu? Sasso o boomerang?”
“Ah, ma questo non è giusto,” rispose il Principe Azzurro con un sorriso birichino. “Vedi, dirtelo sarebbe come leggere l’ultima pagina di un libro per prima. Ora, a me piacciono da matti le storie. Mi piacciono gli inizi, mi piace in particolar modo lo svolgimento, ma non mi dicono nulla le fini delle storie. Quindi perché non lasciamo la fine per la fine?”
“Questa,” rispose la Principessa Non-Più-Arrabbiata togliendosi elegantemente la mutandina, “è un’ottima idea. Vuoi un pompino?”
Tuesday, February 6, 2007
La Magia non Esiste
“Chi mi vuole a quest’ora?” chiese irritato l’uomo massiccio e scuro, sia di capelli che in volto. Teneva il mantello di lana grigia chiuso fino al mento con la mano sinistra, e con la destra teneva aperta una cosa che il servo aveva visto soltanto poche volte, e mai da vicino. Si chiamava libro, era fatto di tanti fogli piatti e rettangolari ricoperti di segni che soltanto il Signore e i suoi figli sapevano decifrare. Sul tavolo, e sulle mensole tutto intorno, un caos di oggetti, cose, recipienti, contenitori, flaconi, sostanze, polveri, liquidi, dei quali invece il servo non aveva mai saputo i nomi.
Come faceva il Signore a stare qui sotto in questo freddo e umido postaccio, che qualsiasi altro Signore avrebbe destinato a cantina o dongione, proprio non riusciva a capirlo. Lui, il servo, passava le serate accanto al grande camino in cucina come un signore, e il Signore qui sotto come un povero cristo. Mah. I Signori erano a volte strana gente, e questo più di tutti.
“Uno sconosciuto, mio Signore. Si è presentato in cucina che c’eravamo noi che cenavamo, e ha chiesto se questo non era la casa di Sir Hew de Gifford, e se noi non eravamo i servi dello stesso. Abbiamo detto di sì, e lui ci ha detto che desiderava vedervi subito.”
“E non ha dato alcun nome, alcuna spiegazione?” chiese di nuovo il Signore.
“Mio Signore, abbiamo chiesto più volte, ma dice che suo nome non lo dirà a nessuno, e la spiegazione la saprete soltanto voi se sarete all’altezza. Gli abbiamo detto che voi siete il Signore qui, non c'è nessuno più in alto di voi da queste parti. E’ vestito povero Signore, ma parla bene, come voi.”
Sir Hew guardò distrattamente la pagina del suo libro, masticando un qualche boccone immaginario.
“E va bene. Che sia ammesso al Salone. Arrivo. Ma non lasciarlo solo. Resti con lui. E dagli della birra. E’ una notte fredda.”
Il servo fece un breve inchino e se ne andò su per la scala ormai verdastra dall’umidità. Non poteva lamentarsi e infatti non lo faceva mai. Il Signore li trattava bene. Li dava tutto ciò che serviva, quando serviva e non faceva domande. Li dava spesso anche qualcosa di più. Non c’era fame nel castello dei Gifford, e c’era meno freddo che in altri castelli, dato che il Signore li dava mano libera nella legnaia e il permesso di spazzare via gli avanzi dalla tavola alta oltre alla cena destinata a loro in cucina.
Ma anche se non fosse stato così, la gente sarebbe stata lì buona buona lo stesso, per il disagio. Non si capiva se era paura, o sospetto, ma si sapeva che era meglio non essere fonte di disturbo per il Signore. Lo sentivano anche quelli di fuori, quelli che lavoravano le terre, gli artigiani del paese vicino dove c’era il mercato una volta al mese. A Haddintoun come a Yester, tutti sapevano ma nessuno parlava. Soltanto ogni tanto, dopo il mercato e una birra di troppo, qualche parole usciva da qualche bocca un po’ troppo lubrificata. Parole come magia, come diavolo, come tenebre, come venduto, come anima… E poi subito dopo parole come “sarebbe meglio per te metterti sulla via per casa amico” e il silenzio.
La gente lo guardava mentre passava a cavallo, da sotto dei loro cappucci, con le facce rivolte verso terra. Con timore, ma anche con qualcosa assomigliante al rispetto dal momento che nessuno aveva amministrato la gleba di Yester così bene prima che gli fu donato dalla vedova del re. Nonostante quelle parole di troppo dette nella locanda. Il benessere c’era, e la messa la domenica c’era, e anche se lui non si presentava, cosa significava? I Signori le loro messe le facevano da soli, nei loro castelli, e allora?
E c’erano anche occhi che lo guardavano con qualcos’altro. I Gifford erano tra i Normanni più conosciuti del reame, una famiglia forte che aveva sempre avuto il meglio di tutto. E anche se era strano che lui fosse così scuro mentre altri erano così biondi, non c’era da sorprendersi se era venuto abbastanza bene come uomo. Forte, alto, né troppo magro né con quella pancetta in più che veniva ai ben nutriti della sua età.
Misterioso dicevano le signore. E certi occhi da signorina lo guardavano sognando quelle braccia forti e i bei abiti della Signora. E certo occhi da giovane sposa lo guardavano chiedendosi se con lui.. insomma.. se anche i Signori prendevano le Signore come vacche nella stalla, come facevano i loro mariti… E certi occhi da signora ormai con figli a corteggiare tra di loro, ma con ancora terreno fertile nel grembo e nello sguardo, si chiedevano se magari, facendosi trovare a fare il bagno nel fiume d’estate…
Ma lui era un mistero. Aveva una bella Signora: pochi capelli bianchi, ancora snella, tutti i suoi denti, figlia del ciambellano del vecchio re morto. Ma avevano fatto soltanto un paio di figli. E pur avendo anche il diritto non aveva degnato neanche una delle donne trovate a fare il bagno nel fiume e nemmeno una delle fanciulle in età da marito delle sue attenzioni. E neanche i ragazzi se era per quello, a differenza di altri Signori. Un rebus, ma un rebus da lasciare irrisolto, meglio non fare domande.
Sir Hew si fermò un momento all’entrata del Salone per osservare il visitatore così sfacciato da chiedere di lui senza presentazione. Lo vide di spalle, piccolo ma robusto e avvolto in un mantello col cappuccio ancora tirato su. Altro non riusciva a capire. Era in piedi davanti al grande camino mentre fissava le fiamme che davano anche quel poco di luce che c’era a quest’ora tarde. Il servo era a distanza rispettosa, anche lui in piedi. Sbadigliava accanto al grande tavolo di quercia dove aveva posato la brocca di birra e una tazza di peltro riservata agli ospiti di un certo rango. Bene.
“Posso sapere chi fa l’onore alla mia casa di una visita così inattesa a quest’ora? Deve aver costato molto fatica arrivare fin qui con il freddo e la pioggia che ci sono lì fuori.”
La figura si voltò con mezzo passo, così da rimanere sagomata di profilo contro il fuoco. Ancora non si vedeva nulla del volto, nascosto da un lembo del cappuccio abbondante. Sir Hew notò soltanto la punta di un stivale antico, ruvido, sporco, ormai ammorbidito al punto di aver assunto la forma di un piede che si sospettava essere deforme, contorto. E le dita di una mano semmai ancora più vecchia. Rugosa da sembrare fatta da un pezzo di pelle troppo grosso per le ossa piccole. Piegata e avvolta. Grigia. Leggermente, ma era sicuramente la luce falsificante del fuoco, verdastra. Unghie lunghe, lunghissime. Sporche. Un essere che emanava un leggero odore di terreno, di bosco, di fogli alla fine dell’autunno, di disfatta pre-invernale. Sicuramente aveva usato il bosco come dormitorio la notte precedente.
“Il mio nome non mi è dato darlo. Ma il vostro lo conosco Sir Hew. Abbiamo un vecchio conoscente in comune. Ho fame e ho freddo e mi dicono bene di voi. Della vostra ospitalità”.
Gli occhi del servo si spalancarono sentendo la voce rauca ma piana dell’ospite, come il trascinare dei tronchi sul pavimento di pietra del cortile, ma a distanza. Era addestrato abbastanza bene da non dare altro segnale della stranezza di ciò che sentiva. Soltanto gli occhi spalancati.
Quelli di Sir Hew si socchiusero nello stesso istante. E anche lui non diede altro segnale.
“Mi lusingano. Mi è dato sapere chi sono il nostro conoscente comune?”
“No.”
Sir Hew si voltò verso il servo. “Ci porta un vassoio con qualcosa da mangiare e un’altra brocca di birra. E poi ci lascia soli.” Il servo gli guardò con un po’ di incertezza. Sir Hew annuì una volta e poi indicò la porta con la testa. Il servo sparì.
“Da dove arrivate così tarde? È in viaggio?” chiese Sir Hew al suo ospite.
“Sono sempre in viaggio per il mio padrone,” gli rispose.
“Si vede che vostro padrone ha dei motivi per fidarsi. Si vede che portate a buon fine i vostri affari,” osservò Sir Hew.
“Questo dipende da voi Signore,” disse l’omino, girandosi verso Sir Hew. Fece cadere il cappuccio, ma tenne stretto il mantello intorno al suo collo, così che si videro soltanto una testa calva se non per qualche lungo indisciplinato capello bianco e un paio di occhi neri, lucidi, vivi, intelligenti, del tutto inattesi in una figura così antica, malridotta, piccola e curva. Fissò Sir Hew.
Sir Hew a sua volta fissò gli occhi.
“Sedetevi, vi prego. Sarete stanco dopo tutto questo viaggiare.”
I due si sedettero al tavolo. Sir Hew nella sua sedia centrale, con la sua schiena rivolta verso il camino. Indicò all’ospite il posto accanto, alla sua destra. Sir Hew prese la tazza di peltro piena di birra che finora l’omino non aveva toccato e gliela mise davanti. Non si parlarono più. L’omino bevve un sorso e annuì soddisfatto.
Arrivarono il vassoio e la nuova brocca. L’omino allungò la mano legnosa e prese un pezzo di pollo, che sparì tra i due lembi del mantello. Poi annuì di nuovo.
“E buono. Come la vostra birra. Chissà se i vostri letti sono altrettanto morbidi come il vostro pollo. Oppure magari sono pieni di paglia vecchia e pulci.”
“C’è un solo modo per saperlo,” disse Sir Hew. “E intanto vi auguro una buona notte di risposo.” Sparì fuori dalla porta. Un minuto dopo arrivò il servo con una torcia e un cesto, e con un inchino rispettoso, che prima non aveva fatto, invitò l’omino a seguirlo. Salirono lentamente la scala stretta mentre curvava su e poi su. Nell’angusto, freddo corridoio due piani più in su, il servo aprì una porta pesante di legno. Si inginocchiò davanti al piccolo camino e con il contenuto del cesto e la torcia, accese il fuoco. Indicò il letto:
“E’ tutto pronto signore, presto il fuoco scalderà la stanza. Buona notte.”
E fissando la torcia alla parete uscì dalla stanza, ubbidiente e mistificato, come spesso era.
Sir Hew si fermò di nuovo all’entrata del Salone, come aveva fatto la sera prima. Non aveva dormito, né ci aveva provato. Dopo aver lasciato suo ospite con il servo era sceso di nuovo nella sua camera sotterranea. Li aveva passato la notte cercando di leggere qualche pagina, ma perlopiù camminando su e giù per la lunghezza della stanza.
Nonostante la sua notte insonne, non ce l’aveva fatta a precedere il suo ospite.. Era di nuovo fermo davanti al camino. Osservava intento e immobile le ceneri e i pochi pezzettini di brace ancora vivi. Dietro Sir Hew il servo si fermò anche lui, il vassoio con il pane d’avena, il formaggio e la tazza di peltro in una mano, la brocca di birra nell’altra.
“Allora? I nostri letti sono morbidi come i nostri polli?” chiese Sir Hew.
L’ospite si girò, e questa volta lasciò cadere del tutto il mantello.
Sir Hew sentì il servo soffocare a stento un urlo, lo sentì fare due passi indietro, ma non sentì cadere il vassoio. Bene.
Sir Hew non si mosse.
I due occhi erano quelli della sera prima, neri, lucidi, penetranti, intelligenti. Anche la mano era quella della sera prima, e gli stivali pure. Il resto… Non c’era nulla del corpo che non fosse in qualche maniera storto. Era piccolo ma tozzo, non era gobbo ma era comunque curvo. La testa enorme sembrava spuntare direttamente dalle spalle senza necessità di un collo. Le braccia erano troppo lunghe e troppo magre per il corpo. Le gambe non sembravano fatte per reggere il peso, e forse per questo erano piegate ad angoli impossibili dall’anca infuori. Gambe da rana, non da uomo. I suoi vestiti erano stracci indistinti, difficile distinguere tra un indumento e un altro. Sembravano ormai fusi insieme al suo corpo. E la sua pelle.. Ora che c’era la prima debole luce di un’inattesa giornata di sole d’inverno, era lo stesso grigio-verdastro. Non era stato un gioco della luce delle fiamme. Ruvido, rugoso, più che pelle sembrava corteccia, più che un uomo sembrava un albero di collina, frenato, inibito e storpiato nella crescita dal vento feroce.
“Vedo che noi due ci conosciamo,” disse Sir Hew.
“Vedete bene Signore,” gli rispose la creatura.
“La colazione,” gli disse Sire Hew indicando la sedia. “Dovrete pur mangiare prima di continuare il vostro viaggio.”
L’essere sorrise.
“Non è necessario. Voi avete già provveduto, come aveva previsto il nostro amico comune. Voi siete stati all’altezza. E in segno di gratitudine mio padrone mi chiede di farvi dono di questo tesoro.”
Da qualche piccola, lurida tasca nascosta dentro le strate di tessuti vari che lo coprivano, tirò fuori una singola, piccola, perfetta, verdissima pera.
“In pieno inverno?” si meravigliò il servo, nonostante gli stavano tremando le gambe.
“In questo frutto sta il frutto di tutto ciò che voi avete donate liberamente a mio padrone. In questo frutto sta il frutto negli anni a venire del suo casato. Se la conserva integra, se la protegge con lo stesso onore con cui avete trattato me, così la sua stirpe e i suoi terreni rimarranno nel tempo: integri e onorati.”
La mise sul tavolo, raccolse il suo mantello, venne verso Sir Hew e il servo, ancora fermi alla porta, e li passò accanto, fermandosi soltanto per un breve inchino davanti al Signore e un piccolo, quasi divertito, sorriso al servo. Sir Hew restituì l’inchino, e quando si alzò una frazione di secondo dopo, tutto ciò che rimase del suo ospite era l’odore del bosco, del muschio, dei fogli, dei funghi.
“Signore, quell’uomo..” cominciò il servo.
“Qui non c’è stato alcun uomo tranne noi due,” disse Sir Hew. “E perché tu mi hai servito bene, ti darò una parola, ma in cambio tu non la pronuncerai mai. Goblin.”
Vide gli occhi del servo spalancarsi di nuovo. Vide la sua bocca muoversi in silenzio attorno alla parola, che non avrebbe mai pronunciato.
“Ora sveglia i miei figli. Portali giù di sotto. E’ ora che sappiano alcune cose.”
E Sir Hew, con la pera in mano, scese di nuovo nella sua camera sotto la terra, ad aspettare i suoi figli.
Come faceva il Signore a stare qui sotto in questo freddo e umido postaccio, che qualsiasi altro Signore avrebbe destinato a cantina o dongione, proprio non riusciva a capirlo. Lui, il servo, passava le serate accanto al grande camino in cucina come un signore, e il Signore qui sotto come un povero cristo. Mah. I Signori erano a volte strana gente, e questo più di tutti.
“Uno sconosciuto, mio Signore. Si è presentato in cucina che c’eravamo noi che cenavamo, e ha chiesto se questo non era la casa di Sir Hew de Gifford, e se noi non eravamo i servi dello stesso. Abbiamo detto di sì, e lui ci ha detto che desiderava vedervi subito.”
“E non ha dato alcun nome, alcuna spiegazione?” chiese di nuovo il Signore.
“Mio Signore, abbiamo chiesto più volte, ma dice che suo nome non lo dirà a nessuno, e la spiegazione la saprete soltanto voi se sarete all’altezza. Gli abbiamo detto che voi siete il Signore qui, non c'è nessuno più in alto di voi da queste parti. E’ vestito povero Signore, ma parla bene, come voi.”
Sir Hew guardò distrattamente la pagina del suo libro, masticando un qualche boccone immaginario.
“E va bene. Che sia ammesso al Salone. Arrivo. Ma non lasciarlo solo. Resti con lui. E dagli della birra. E’ una notte fredda.”
Il servo fece un breve inchino e se ne andò su per la scala ormai verdastra dall’umidità. Non poteva lamentarsi e infatti non lo faceva mai. Il Signore li trattava bene. Li dava tutto ciò che serviva, quando serviva e non faceva domande. Li dava spesso anche qualcosa di più. Non c’era fame nel castello dei Gifford, e c’era meno freddo che in altri castelli, dato che il Signore li dava mano libera nella legnaia e il permesso di spazzare via gli avanzi dalla tavola alta oltre alla cena destinata a loro in cucina.
Ma anche se non fosse stato così, la gente sarebbe stata lì buona buona lo stesso, per il disagio. Non si capiva se era paura, o sospetto, ma si sapeva che era meglio non essere fonte di disturbo per il Signore. Lo sentivano anche quelli di fuori, quelli che lavoravano le terre, gli artigiani del paese vicino dove c’era il mercato una volta al mese. A Haddintoun come a Yester, tutti sapevano ma nessuno parlava. Soltanto ogni tanto, dopo il mercato e una birra di troppo, qualche parole usciva da qualche bocca un po’ troppo lubrificata. Parole come magia, come diavolo, come tenebre, come venduto, come anima… E poi subito dopo parole come “sarebbe meglio per te metterti sulla via per casa amico” e il silenzio.
La gente lo guardava mentre passava a cavallo, da sotto dei loro cappucci, con le facce rivolte verso terra. Con timore, ma anche con qualcosa assomigliante al rispetto dal momento che nessuno aveva amministrato la gleba di Yester così bene prima che gli fu donato dalla vedova del re. Nonostante quelle parole di troppo dette nella locanda. Il benessere c’era, e la messa la domenica c’era, e anche se lui non si presentava, cosa significava? I Signori le loro messe le facevano da soli, nei loro castelli, e allora?
E c’erano anche occhi che lo guardavano con qualcos’altro. I Gifford erano tra i Normanni più conosciuti del reame, una famiglia forte che aveva sempre avuto il meglio di tutto. E anche se era strano che lui fosse così scuro mentre altri erano così biondi, non c’era da sorprendersi se era venuto abbastanza bene come uomo. Forte, alto, né troppo magro né con quella pancetta in più che veniva ai ben nutriti della sua età.
Misterioso dicevano le signore. E certi occhi da signorina lo guardavano sognando quelle braccia forti e i bei abiti della Signora. E certo occhi da giovane sposa lo guardavano chiedendosi se con lui.. insomma.. se anche i Signori prendevano le Signore come vacche nella stalla, come facevano i loro mariti… E certi occhi da signora ormai con figli a corteggiare tra di loro, ma con ancora terreno fertile nel grembo e nello sguardo, si chiedevano se magari, facendosi trovare a fare il bagno nel fiume d’estate…
Ma lui era un mistero. Aveva una bella Signora: pochi capelli bianchi, ancora snella, tutti i suoi denti, figlia del ciambellano del vecchio re morto. Ma avevano fatto soltanto un paio di figli. E pur avendo anche il diritto non aveva degnato neanche una delle donne trovate a fare il bagno nel fiume e nemmeno una delle fanciulle in età da marito delle sue attenzioni. E neanche i ragazzi se era per quello, a differenza di altri Signori. Un rebus, ma un rebus da lasciare irrisolto, meglio non fare domande.
Sir Hew si fermò un momento all’entrata del Salone per osservare il visitatore così sfacciato da chiedere di lui senza presentazione. Lo vide di spalle, piccolo ma robusto e avvolto in un mantello col cappuccio ancora tirato su. Altro non riusciva a capire. Era in piedi davanti al grande camino mentre fissava le fiamme che davano anche quel poco di luce che c’era a quest’ora tarde. Il servo era a distanza rispettosa, anche lui in piedi. Sbadigliava accanto al grande tavolo di quercia dove aveva posato la brocca di birra e una tazza di peltro riservata agli ospiti di un certo rango. Bene.
“Posso sapere chi fa l’onore alla mia casa di una visita così inattesa a quest’ora? Deve aver costato molto fatica arrivare fin qui con il freddo e la pioggia che ci sono lì fuori.”
La figura si voltò con mezzo passo, così da rimanere sagomata di profilo contro il fuoco. Ancora non si vedeva nulla del volto, nascosto da un lembo del cappuccio abbondante. Sir Hew notò soltanto la punta di un stivale antico, ruvido, sporco, ormai ammorbidito al punto di aver assunto la forma di un piede che si sospettava essere deforme, contorto. E le dita di una mano semmai ancora più vecchia. Rugosa da sembrare fatta da un pezzo di pelle troppo grosso per le ossa piccole. Piegata e avvolta. Grigia. Leggermente, ma era sicuramente la luce falsificante del fuoco, verdastra. Unghie lunghe, lunghissime. Sporche. Un essere che emanava un leggero odore di terreno, di bosco, di fogli alla fine dell’autunno, di disfatta pre-invernale. Sicuramente aveva usato il bosco come dormitorio la notte precedente.
“Il mio nome non mi è dato darlo. Ma il vostro lo conosco Sir Hew. Abbiamo un vecchio conoscente in comune. Ho fame e ho freddo e mi dicono bene di voi. Della vostra ospitalità”.
Gli occhi del servo si spalancarono sentendo la voce rauca ma piana dell’ospite, come il trascinare dei tronchi sul pavimento di pietra del cortile, ma a distanza. Era addestrato abbastanza bene da non dare altro segnale della stranezza di ciò che sentiva. Soltanto gli occhi spalancati.
Quelli di Sir Hew si socchiusero nello stesso istante. E anche lui non diede altro segnale.
“Mi lusingano. Mi è dato sapere chi sono il nostro conoscente comune?”
“No.”
Sir Hew si voltò verso il servo. “Ci porta un vassoio con qualcosa da mangiare e un’altra brocca di birra. E poi ci lascia soli.” Il servo gli guardò con un po’ di incertezza. Sir Hew annuì una volta e poi indicò la porta con la testa. Il servo sparì.
“Da dove arrivate così tarde? È in viaggio?” chiese Sir Hew al suo ospite.
“Sono sempre in viaggio per il mio padrone,” gli rispose.
“Si vede che vostro padrone ha dei motivi per fidarsi. Si vede che portate a buon fine i vostri affari,” osservò Sir Hew.
“Questo dipende da voi Signore,” disse l’omino, girandosi verso Sir Hew. Fece cadere il cappuccio, ma tenne stretto il mantello intorno al suo collo, così che si videro soltanto una testa calva se non per qualche lungo indisciplinato capello bianco e un paio di occhi neri, lucidi, vivi, intelligenti, del tutto inattesi in una figura così antica, malridotta, piccola e curva. Fissò Sir Hew.
Sir Hew a sua volta fissò gli occhi.
“Sedetevi, vi prego. Sarete stanco dopo tutto questo viaggiare.”
I due si sedettero al tavolo. Sir Hew nella sua sedia centrale, con la sua schiena rivolta verso il camino. Indicò all’ospite il posto accanto, alla sua destra. Sir Hew prese la tazza di peltro piena di birra che finora l’omino non aveva toccato e gliela mise davanti. Non si parlarono più. L’omino bevve un sorso e annuì soddisfatto.
Arrivarono il vassoio e la nuova brocca. L’omino allungò la mano legnosa e prese un pezzo di pollo, che sparì tra i due lembi del mantello. Poi annuì di nuovo.
“E buono. Come la vostra birra. Chissà se i vostri letti sono altrettanto morbidi come il vostro pollo. Oppure magari sono pieni di paglia vecchia e pulci.”
“C’è un solo modo per saperlo,” disse Sir Hew. “E intanto vi auguro una buona notte di risposo.” Sparì fuori dalla porta. Un minuto dopo arrivò il servo con una torcia e un cesto, e con un inchino rispettoso, che prima non aveva fatto, invitò l’omino a seguirlo. Salirono lentamente la scala stretta mentre curvava su e poi su. Nell’angusto, freddo corridoio due piani più in su, il servo aprì una porta pesante di legno. Si inginocchiò davanti al piccolo camino e con il contenuto del cesto e la torcia, accese il fuoco. Indicò il letto:
“E’ tutto pronto signore, presto il fuoco scalderà la stanza. Buona notte.”
E fissando la torcia alla parete uscì dalla stanza, ubbidiente e mistificato, come spesso era.
Sir Hew si fermò di nuovo all’entrata del Salone, come aveva fatto la sera prima. Non aveva dormito, né ci aveva provato. Dopo aver lasciato suo ospite con il servo era sceso di nuovo nella sua camera sotterranea. Li aveva passato la notte cercando di leggere qualche pagina, ma perlopiù camminando su e giù per la lunghezza della stanza.
Nonostante la sua notte insonne, non ce l’aveva fatta a precedere il suo ospite.. Era di nuovo fermo davanti al camino. Osservava intento e immobile le ceneri e i pochi pezzettini di brace ancora vivi. Dietro Sir Hew il servo si fermò anche lui, il vassoio con il pane d’avena, il formaggio e la tazza di peltro in una mano, la brocca di birra nell’altra.
“Allora? I nostri letti sono morbidi come i nostri polli?” chiese Sir Hew.
L’ospite si girò, e questa volta lasciò cadere del tutto il mantello.
Sir Hew sentì il servo soffocare a stento un urlo, lo sentì fare due passi indietro, ma non sentì cadere il vassoio. Bene.
Sir Hew non si mosse.
I due occhi erano quelli della sera prima, neri, lucidi, penetranti, intelligenti. Anche la mano era quella della sera prima, e gli stivali pure. Il resto… Non c’era nulla del corpo che non fosse in qualche maniera storto. Era piccolo ma tozzo, non era gobbo ma era comunque curvo. La testa enorme sembrava spuntare direttamente dalle spalle senza necessità di un collo. Le braccia erano troppo lunghe e troppo magre per il corpo. Le gambe non sembravano fatte per reggere il peso, e forse per questo erano piegate ad angoli impossibili dall’anca infuori. Gambe da rana, non da uomo. I suoi vestiti erano stracci indistinti, difficile distinguere tra un indumento e un altro. Sembravano ormai fusi insieme al suo corpo. E la sua pelle.. Ora che c’era la prima debole luce di un’inattesa giornata di sole d’inverno, era lo stesso grigio-verdastro. Non era stato un gioco della luce delle fiamme. Ruvido, rugoso, più che pelle sembrava corteccia, più che un uomo sembrava un albero di collina, frenato, inibito e storpiato nella crescita dal vento feroce.
“Vedo che noi due ci conosciamo,” disse Sir Hew.
“Vedete bene Signore,” gli rispose la creatura.
“La colazione,” gli disse Sire Hew indicando la sedia. “Dovrete pur mangiare prima di continuare il vostro viaggio.”
L’essere sorrise.
“Non è necessario. Voi avete già provveduto, come aveva previsto il nostro amico comune. Voi siete stati all’altezza. E in segno di gratitudine mio padrone mi chiede di farvi dono di questo tesoro.”
Da qualche piccola, lurida tasca nascosta dentro le strate di tessuti vari che lo coprivano, tirò fuori una singola, piccola, perfetta, verdissima pera.
“In pieno inverno?” si meravigliò il servo, nonostante gli stavano tremando le gambe.
“In questo frutto sta il frutto di tutto ciò che voi avete donate liberamente a mio padrone. In questo frutto sta il frutto negli anni a venire del suo casato. Se la conserva integra, se la protegge con lo stesso onore con cui avete trattato me, così la sua stirpe e i suoi terreni rimarranno nel tempo: integri e onorati.”
La mise sul tavolo, raccolse il suo mantello, venne verso Sir Hew e il servo, ancora fermi alla porta, e li passò accanto, fermandosi soltanto per un breve inchino davanti al Signore e un piccolo, quasi divertito, sorriso al servo. Sir Hew restituì l’inchino, e quando si alzò una frazione di secondo dopo, tutto ciò che rimase del suo ospite era l’odore del bosco, del muschio, dei fogli, dei funghi.
“Signore, quell’uomo..” cominciò il servo.
“Qui non c’è stato alcun uomo tranne noi due,” disse Sir Hew. “E perché tu mi hai servito bene, ti darò una parola, ma in cambio tu non la pronuncerai mai. Goblin.”
Vide gli occhi del servo spalancarsi di nuovo. Vide la sua bocca muoversi in silenzio attorno alla parola, che non avrebbe mai pronunciato.
“Ora sveglia i miei figli. Portali giù di sotto. E’ ora che sappiano alcune cose.”
E Sir Hew, con la pera in mano, scese di nuovo nella sua camera sotto la terra, ad aspettare i suoi figli.
Subscribe to:
Posts (Atom)